Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Le letture che accolgono gli ambrosiani in questo inizio d’Avvento e, conseguentemente, nuovo anno liturgico, si caratterizzano senz’altro per l’asprezza che, forse, non ci aspetteremmo proprio all’inizio di questo tempo liturgico, che – pensiamo – dovrebbe preparare il cuore alla dolcezza di un bimbo in fasce in una stalla.
Nel brano della prima lettura, troviamo una trasfigurazione teologica di un evento storico che, all’epoca, deve aver suscitato grande stupore: la sconfitta di Babilonia. Ciò avviene nel secolo VI, quando Babilonia è distrutta da Ciro, re persiano, nel 539 a.C.: per questo motivo l’autore del libro è da considerarsi non l’Isaia “storicamente attestato, bensì il cosiddetto “terzo Isaia”. Con immagini drammatiche e tinte forte, troviamo pennellata, con incredibile realismo, la tragedia della guerra, espressa con l’angoscia ed il terrore di chi è in attesa di una sorte terribile ed ineluttabile. È pittoresco rilevare, nel finale, una sorta di assertività ante litteram. Non afferma, infatti, di accanirsi contro gli empi, i protervi, i malvagi od i tiranni: al contrario, punirà nel mondo la malvagità, negli empi la loro iniquità e farà cessare la superbia dei protervi, umiliando l’orgoglio dei tiranni (Is 13, 10-11). È un dettaglio importante: sottolinea come non si tratti mai di un‘operazione brutale o brutalizzante, uno scempio gratuito nei confronti di chi abbia compiuto il male. Al contrario, con precisione chirurgica, la sua mira è espressamente rivolta a trovare il male, così da poterlo curare. Come per un paziente oncologico, trovare il male è conditio sine qua non (condizione indispensabile) qualunque altra tappa della terapia è impensabile, allo stesso modo, per guarire dal peccato che devasta le nostre anime e ci allontana dalla felicità piena, è necessario scovare e stanare il peccato, là dove si annida e combatterlo, senza mezzi termini né scusanti di sorta (come siamo, al contrario, spesso tentati di fare, a causa della nostra natura, ferita dal peccato originale).
Nel Vangelo, Gesù è invitato ad osservare lo splendore del Tempio di Gerusalemme, orgoglio di tutti i Giudei per la sua magnificenza. In particolare, un’aggiunta recente di Erode il Grande prevedeva che, tramite le offerte raccolte dai fedeli, giorno dopo giorno, si allungassero le viti d’oro alle pareti del vestibolo, così luminose da rendere pressoché impossibile fissarle durante il giorno, quando la luce diurna si rifletteva su di esse. Eppure, tutta questa mirabile bellezza sarà distrutta. Il Vangelo si ricollega, quindi, alla Prima Lettura: come Babilonia, paradigma di potenza militare, ha trovato la sconfitta con l’avvento del Regno di Persia, anche il tempio di Gerusalemme, con tutta la sua gloria, sarà completamente distrutto dai Romani, poche decine d’anni dopo la morte di Cristo (70 d.C.).

L’uomo fallisce sempre, quando s’illude di trovare da solo la via verso la Bellezza. Perché, il più delle volte, confonde gli obiettivi: cerca la forza della violenza, quando non concepisce la rivoluzionare potenza racchiusa nella forza della mitezza; s’incaponisce nella grandiosità, quando non comprende la perfezione che si racchiude nei dettagli più minuti; insegue il dominio sulle cose e sulle persone, perché ha paura di essere dominato ed oppresso, se agisce diversamente.
La lettera di San Paolo si rivolge agli Efesini. Qui troviamo attestazione di come l’appellativo “santi” abbia precorso quello di “cristiani”, a sottolineare quanto fosse forte, nelle prime comunità cristiane, la vocazione alla santità. Le parole dell’Apostolo, del resto, sono molto decise al riguardo e chiariscono come ciò possa accadere:

Di fornicazione e di ogni specie di impurità o di cupidigia neppure si parli fra voi – come deve essere tra santi – né di volgarità, insulsaggini, trivialità, che sono cose sconvenienti. Piuttosto rendete grazie! (Ef 5, 3-4)

È interessante questa sottolineatura: “neppure se ne parli”. Come a dire: «non prendo neppure in considerazione che voi facciate cose simile, perché neppure dovreste discuterne». Naturalmente, non si trattava di una comunità di perfetti, anzi: sappiamo bene come, nonostante le raccomandazioni di Cristo, gli scandali non abbiano mai fatto difetto (non è certo con orgoglio che va detto, bensì come doverosa constatazione) alla Chiesa. Tuttavia, troviamo qui un aspetto talvolta trascurato. Quello, cioè, dei pensieri e delle parole. Le parole che pronunciamo si nutrono dei nostri pensieri e ne danno lustro, nel bene e nel male. Il problema è: stiamo attenti a ciò di cui nutriamo gli occhi ed il cuore almeno la metà di quanto stiamo attenti a cosa introduciamo nella nostra bocca? È inevitabile, infatti, che ciò che ascoltiamo e guardiamo condizioni i pensieri che abitano le nostri menti e tendano a prendere il sopravvento, specie quando siamo più stanchi e debilitati; come non pensare, dunque, che ciò non contribuisca a farci dire parole taglienti ed avventate quando non vorremmo?
Forse, la prima “astinenza” salutare a cui pensare, durante questo Avvento è una sostituzione: sottrarre al nostro sguardo qualche immagine di morte e di terrore, per rimpiazzarla con altre di bellezza e di gioia, per aiutare anche l’anima a respirare ciò che le è proprio.
In conclusione, è inevitabile non notare quella chiosa piuttosto rendete grazie: Eucaristia, dal greco εὐχαριστία, significa «rendimento di grazie». È invito a non lasciar passare occasione di gratitudine davanti ai nostri occhi senza dimostrare riconoscenza a Chi l’ha permessa. Anche questo è un modo di allenare gli occhi alla Bellezza. Possa essere questo lo stile (di bellezza e di riconoscenza) con cui entrare nel tempo forte dell’Avvento.

[Rif: Letture festive ambrosiane nella I Domenica di Avvento, anno C: Is 13,4-11; Sal 67; Ef 5,1-11a; Lc 21,5-28]


Fonte immagine: Dente di leone, da Pixabay

Altre fonti: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone

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