Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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La storia narra che ad una matrona un po’ troppo ammaliata dal luccichio dei propri gioielli, Cornelia avesse mostrato con orgoglio materno i suoi figli, definendoli come veri preziosi di cui andare fiera.
Esistono beni più pregiati dell’oro, come recita il famoso detto “chi trova un amico trova un tesoro”. Non serve fare speculazioni troppo filosofiche per rendercene conto, così come non è necessario riferirci a valori di mercato.
Quel giocattolo un po’ scolorito e mordicchiato in più punti, dalla gomma che profuma ancora di buono, e da cui per molti anni non ce ne siamo separati nemmeno per un istante. O quel bigliettino d’auguri a forma di cuore, dai contorni imprecisi e dalla scrittura da poco appresa ma colma d’impegno: ogni volta che gli occhi vi si posano è un palpito di tenerezza che abbraccia e riscalda.
In qualunque modo abbiate fatto la vostra lista, qualunque cosa sia, lo conservate con tutte le cure possibili, stando bene attenti che non venga sciupato.
L’atto del custodire fu uno dei primi compiti dati all’essere umano. Adamo venne posto nel giardino di Eden “perché lo lavorasse e lo custodisse”. (Genesi 2,15)
Shamàr” in ebraico è il verbo dell’attenzione, dell’impegno e della dedizione. E’ quell’avere cura che si mette in pratica con il cuore gonfio d’amore e la solerzia di un innamorato. Non c’è fatica che tenga, delusione che faccia volgere lo sguardo altrove, pigrizia che rallenti il passo.
L’uomo è stato creato per la cura, di sé e di tutto ciò che lo circondava. Non un semplice “fare la guardia”, ma una vigilanza che freme perché ciò che si ama possa avere il meglio e nient’altro di meno.
Condivide questo compito con Dio. Esperienza più che rara, in un testo sacro che usa la lingua ebraica per regalare pennellate alle parole: qualche sfumatura in più, ed ecco un termine di cui Dio ha la sola prerogativa, come bara’ – l’atto del creare. Un tocco di colore cangiante et voilà, parole ed azioni accomunano creatura e Creatore, li rendono compartecipi, una vera e propria squadra di lavoro che ha tutte le carte in regola per un sodalizio senza rivali.
L’uomo era stato chiamato ad essere custode del creato, avendo a modello un Dio che si prende cura del genere umano e lo fa con la premura di un genitore, non con il meccanicismo di un cane da guardia.
“Il Signore è il tuo custode.” (Sal 121,5)
Shomèr”, “colui che custodisce” – un semplice participio del verbo che aveva caratterizzato Adamo – è ripetuto cinque volte nel minuscolo spazio di otto versetti, una maggioranza schiacciante: è un abbraccio tramutato in parole e messo nero su bianco.
Ad Adamo fu dato d’essere custode, non perché non c’era altro da fare, anzi!, ma perché era l’invito ad essere specchio-di-Dio, riflesso di una divinità che s’era presa in carico la protezione dei propri figli.
Siamo il tesoro di Dio, qualcosa di cui egli si prende cura con gelosia e tenerezza, preziosi ai suoi occhi e per questo da preservare in ogni modo. Com’è lontana l’idea di un Dio guardone – simil-Grande Fratello – che sbircia tutti i nostri movimenti, che non ci perde di vista aspettando solo l’attimo per coglierci in fallo! Di questa divinità con taccuino e binocolo il testo sacro non sa che farsene, preferendo di gran lunga l’idea di un genitore che in contemplativo silenzio veglia il sonno di un figlio appena nato.
“Sono il custode di mio fratello?” (Genesi 4,9)
L’insofferenza di Caino è un eco che giunge fino a noi, il cui riverbero non si affievolisce, millennio dopo millennio, ma che anzi si ripete con desolante costanza e ferocia perenne. Del libero arbitrio egli ne ha fatto un’arma verso il suo stesso sangue. Le mani, che dovevano essere strumenti di custodia e d’amore, le ha mutate in strumento di odio e di morte.
A Dio, che gli chiedeva ragione di Abele, rispose con un’altra domanda, quasi una sfida, un’alzata di spalle che non tollerava intromissioni. Fu una domanda retorica, la sua. Di quelle cioè che non hanno bisogno di arguzia nel cercare la risposta, ma la sottintende tra le righe.
Di nuovo, “shomèr”, colui che custodisce. La prima domanda retorica della storia è una sorta di dichiarazione-del-genere-umano: siamo i custodi gli uni degli altri. E’ un compito che ci è stato dato “di serie”, non un accessorio regalato ad alcuni sì e ad altri no, un optional in più da usare una volta ogni tanto e quando ce ne ricordiamo, o solo per strombazzarlo ai quattro venti per suscitare l’ammirazione altrui.
Ma la cura che è insita in noi è anche una strada dalla doppia direzione. Perché se è vero che siamo nati per custodire i nostri fratelli, è altrettanto vero che siamo nati per essere custoditi da essi. La reciprocità degli inviti di Dio è un abbraccio che non vuole lasciare nessuno escluso, è un filo che ci lega a doppio nodo gli uni gli altri.
Nella scuola buddhista questo tipo di legame è chiamato “rete di gioielli”, in cui ogni nodo – fuor di metafora: ogni persona – è un gioiello prezioso che può risplendere solo se insieme ai suoi simili, grazie alla luce di una inter-dipendenza che accarezza e si fa portatrice di pace. Se si rende opaco, se smette di brillare e lascia che sia l’oscurità a vincere sulla sua luminosa bellezza, allora anche tutti gli altri perdono la loro lucentezza e tutto si fa più buio, più brutto, più triste. Non è un appiattimento per rendere tutti indistintamente uguali, ma un innalzare l’umanità intera – di qualunque lingua, colore e nazionalità – a tesoro di cui prendersi cura, affinché il gesto di Caino possa un giorno non ripetersi mai più.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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