Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Nel brano tratto dal profeta Isaia è presentata una visione reiterata, nell’Antico Testamento: quella di Dio come Sposo del popolo d’Israele. Mentre Dio si dimostra “fedele a se stesso” e alla propria promessa, Israele e, al contrario “sposa adultera”, in quanto Lo tradisce, “prostituendosi” agli idoli, non appena se ne presenti occasione, dubitando della Parola ricevuta e disprezzando i profeti, come ha modo lo stesso Gesù di ricordare nel Vangelo (Mt 23,37).

«Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti raccoglierò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te» (Is 54, 7-8)

Le indicazioni temporali sono di fondamentale importanza. Il contrasto tra la brevità temporale dell’allontanamento («Per un breve istante ti ho abbandonata», «ti ho nascosto per un poco il mio volto») e la sproporzione dell’amore (che è invece «immenso» e «perenne») dicono di una relazione pedagogica. È la pedagogia dell’amore, che Dio mette in pratica in ogni tempo ed in ogni luogo, alla ricerca del cuore dell’uomo. Come una mamma che, nel rialzare il figlio dopo una caduta, lo attira a sé e si assicura fugacemente che non si sia fatto nulla di male, salvo poi redarguirlo a puntino perché, se è caduto, è perché si è allontanato dalla sua mano, facendo di testa propria, nonostante le raccomandazioni ricevute. È forse da condannare una madre che sgridi il figlio? Per questo il figlio dovrebbe pensare di non essere amato? È solo apparente il contrasto tra amore e correzione. L’amore è reale, solo se dimora nella verità; in caso contrario, è figlio della paura e della solitudine.
L’asprezza è solo apparente: come una carezza data da mani contadine. Può lasciare nello sgomento chi non vi è abituato, ma la delicatezza con cui saremo accarezzati, nonostante la ruvidezza che sentiremo al tatto, ci lascerà evinti dell’autenticità dell’affetto che ha mosso quelle mani. Allo stesso modo, la garanzia di amore «perenne», ci spinge a fidarci di un Dio che chiede la perfezione, ma ci sa fragili e apprezza di più l’autenticità, nella verità, al nostro goffo tentativo di primeggiare sugli altri, magari nella (buona) volontà di risultare “graditi a Dio”. Gesù ce ne parla, attraverso la parabola dei due uomini che si recano al tempio a pregare: mentre il primo, fariseo, ritiene di poter fare un confronto con gli altri e risultarne migliore, il secondo, pubblicano, è ben consapevole delle proprie colpa e non ha neppure il coraggio di guardare agli altri. È un problema di prospettiva. Chi si mette a far confronti, al cospetto di Dio, s’illude di poter meritare l’amore di Dio, sulla base delle proprie forze.
In realtà, non è nelle nostre forze la possibilità di corrispondervi in maniera perfettamente adeguata. È della natura umana l’incostanza, la fatica, l’incomprensione. Non solo non sempre facciamo la volontà di Dio: tante volte neppure riusciamo a vederla e comprenderla, cosicché, convinti di fare del bene, stiamo in realtà spacciando per progetti di Dio i nostri progetti. Questa consapevolezza non deve però essere motivo di disperazione, anzi. La croce di Cristo ci ricorda che l’amore del Padre, da sempre, ci precede e che quello a cui non riusciamo a giungere tramite le nostre forze, può essere comunque alla nostra portata, in virtù dell’abbandono fiducioso nelle mani di Dio. Il fatto che le nostre forze non siano sufficienti non è l’ultima parola sulla realtà: lasciare l’ultima parola a Dio, dopo aver compiuto quanto era nelle nostre possibilità, confidando in Colui che tutto può, rappresenta l’atto di fede del credente. Perché è fiducia che non vi sia alcuna colpa così grande che l’amore di Dio non possa coprire di perdono; beninteso, a fronte di un pentimento sincero, necessario perché non esiste amore, che non si muova all’interno della libertà.
«O Dio, abbi pietà di me peccatore» è la semplice preghiera del pubblicano, che sembra ricordarci, con l’Apostolo, che Spirito Santo prega in noi e per noi, con “gemiti inesprimibili” (Rm 8,26), facendo arrossire noi, che tendiamo, spesso, a moltiplicare le parole, nell’illusione che il loro numero sia garanzia d’efficacia. Al contrario, come ogni altra cosa, anche l’abuso di parola non fa che svilirne il valore. L’invito è dunque quello di consegnare preoccupazioni, fragilità e, perfino, le nostre “recidive” (il Vangelo non dice che il pubblicano smette di essere pubblicano: magari è l’unico mestiere che sa fare e non saprebbe in che altro modo vivere, o magari non ha il coraggio di compiere un passo simile) nelle mani di Dio. Alle volte, la tentazione più grande è pensare che sia inutile: perché confessarmi, se tanto dico sempre le stesse cose, se i peccati sono sempre gli stessi? Il peccatore, «a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato». Il Maligno è banale, nelle sue proposte: ci viene a pungolare, dove sa che il terreno è più morbido, ma riconoscerne l’opera e confidare che Dio risani, rimettendoci in piedi, dopo ogni nostra caduta, è l’unica risposta possibile alla banalità del male.
L’Epistola ci suggerisce poi il comportamento all’interno della comunità, in particolar modo tra fratelli di fede: «D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello» (Rm 14,13). Raccomanda quell’assertività, che nasce del Vangelo e, se diffusa ad ogni livello sociale, non porterebbe che giovamento all’intero tessuto sociale,a partire dall’ambito familiare, senza dimenticare quello del lavoro. L’invito è alla propositività, affinché ci prendiamo cura della debolezza altrui, prima ancora che della nostra: ci sono scelte che possono non essere sbagliate in senso “assoluto”, ma se confondono (“scandalizzano”) gli altri, non possono essere avvallate a cuor leggero. Non posso permettermi di essere d’intralcio alla fede altrui: Paolo ne fa un esempio, con la carne sacrificata agli idoli (1Cor 8,1 – 9-22): la mia conoscenza maggiore non deve diventare motivo di confusione per altri. La correzione fraterna rimane la via maestra, di cui Cristo indica le modalità: prima a tu per tu, in seguito davanti a pochi testimoni, solo come “extrema ratio” se ne fa parola di fronte all’intera comunità (Mt 18,15-17). Questa prassi accoglie in sé un insegnamento psicologico ante litteram: la correzione non è mai (non può esserlo!) imbevuta di vendetta, superbia od umiliazione e, in particolar modo nella Chiesa, deve essere sempre motivata ed intrisa dall’amore per l’edificazione del Corpo di Cristo e dalla consapevolezza di essere tutti membra, votate alla crescita.

 

(Rif: letture festive ambrosiane dell’ultima domenica dell’Epifania, detta “del perdono”)


Fonte immagine: Jeovah’s Witnesses

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