Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Cristo è libertà.
Non è stato facile pervenire a questa consapevolezza, per Pietro che, dopo i proclami di fedeltà assoluta, si è trovato prosternato e atterrito dalla propria fragilità, così spudoratamente esternata al mondo, mentre il Signore pativa anche per lui.
Non è stato facile neppure per Giovanni, pur essendo stato l’unico, tra i discepoli a dimorare sotto la Croce, tanto che la pietà popolare, tanto spesso, lo raffigura proprio in questo modo: sotto alla Croce, accanto alla Madre, segno della Chiesa nascente nel Triduo pasquale. Del resto, come potrebbe essere facile accogliere l’impotenza, di fronte al Mistero che si compie, di fronte all’Amore che si dona, nella sua totalità più viscerale e profonda?
Entrambi, tra i primi ad essere chiamati dal Maestro. Entrambi, provenienti da una famiglia di pescatori, si conoscevano prima della chiamata ed erano soci. Eppure, profondamente differenti. A partire dall’età. Pietro sicuramente più anziano, sposato (sappiamo per certo, dai Vangeli, della presenza della suocera). Giovanni, più giovane, probabilmente più intraprendente e dal cuore inquieto e colmo di domande. Pietro, l’uomo dei grandi slanci, spavaldo fino all’arroganza, più volte ha cercato di tenere a freno il Cristo, come se il Verbo potesse essere trattenuto da parola o buon senso umani!

Così simili, così diversi. Negli Atti degli Apostoli, li vediamo assieme. Già solo per questo, quasi un monito alla Chiesa d’ogni tempo e d’ogni luogo: «Stringetevi a Cristo, pietra viva, ma non temete difformità e differenze di carismi: la fantasia dello Spirito ha molti modi per manifestarsi e continuare l’opera del Padre».

In quei giorni. Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato. Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati». Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni e rendendosi conto che erano persone semplici e senza istruzione, rimanevano stupiti e li riconoscevano come quelli che erano stati con Gesù. Vedendo poi in piedi, vicino a loro, l’uomo che era stato guarito, non sapevano che cosa replicare. Li fecero uscire dal sinedrio e si misero a consultarsi fra loro dicendo: «Che cosa dobbiamo fare a questi uomini? Un segno evidente è avvenuto per opera loro; esso è diventato talmente noto a tutti gli abitanti di Gerusalemme che non possiamo negarlo. Ma perché non si divulghi maggiormente tra il popolo, proibiamo loro con minacce di parlare ancora ad alcuno in quel nome». Li richiamarono e ordinarono loro di non parlare in alcun modo né di insegnare nel nome di Gesù. Ma Pietro e Giovanni replicarono: «Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato». Quelli allora, dopo averli ulteriormente minacciati, non trovando in che modo poterli punire, li lasciarono andare a causa del popolo, perché tutti glorificavano Dio per l’accaduto. L’uomo, infatti, nel quale era avvenuto questo miracolo della guarigione aveva più di quarant’anni. Rimessi in libertà, Pietro e Giovanni andarono dai loro fratelli e riferirono quanto avevano detto loro i capi dei sacerdoti e gli anziani. Quando udirono questo, tutti insieme innalzarono la loro voce a Dio. (At 4, 8-24)

Questo l’episodio proposto dalla liturgia. Niente di nuovo, rispetto a quanto prospettato da Cristo (“perseguiteranno anche voi”), per cui verrebbe persino da stupirsi del lieto fine.

Ma cosa ha provocato tanto trambusto, in Gerusalemme? Forse, è il caso di riprendere l’episodio, che troviamo al capitolo precedente (At 3, 1-26), che riguarda la guarigione di uno storpio. Le ore canoniche dell’Ora Media (Terza, Sesta, Nona) sono direttamente riprese dalla liturgia. Ecco perché troviamo Pietro e Giovanni che alle tre del pomeriggio (ora nona), si stanno recando al tempio a pregare. Inizialmente, infatti, i primi cristiani, si innestano – per così dire – sulla liturgia giudaica e aggiungono il proprium della Cena del Signore (“fate questo in memoria di me”), alle orazioni giudaiche che, a Gerusalemme, avvengono nel tempio. Alla Porta Bella del tempio (uno degli ingressi), gli apostoli incontrano uno storpio, che, lì, chiede l’elemosina. Più avanti, scopriamo anche che ha più di quarant’anni (un uomo considerato oggi pienamente maturo, all’epoca, probabilmente, anziano): è un dato importante perché ci dice che è tanto che soffre la difficoltà di non poter camminare, provvedere a sé e ai suoi familiari, con l’umiliazione di dover chiedere l’elemosina e probabilmente (come sappiamo per l’episodio del cieco nato, cfr. Gv 9, 1 – 41), convivendo con la tristezza e la rabbia di sentirsi un maledetto da Dio.

«Guarda verso di noi». Ed egli si volse verso di loro, aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (At 3, 4-6).

Forse, questo è il primo episodio in cui vediamo Pietro mettersi veramente nel solco dell’imitazione del Maestro. Ha abbandonato le sue mire di possesso sul Mistero, ha compreso come, solo conformarsi al Cristo che cammina per le strade del mondo è risposta all’attesa d’amore del mondo. La prima parola che rivolge allo storpio è infatti una parola d’attenzione, la ricerca di uno sguardo (“Guarda verso di noi”). Guardare una persona negli occhi è attestarne l’esistenza, l’importanza agli occhi di Dio, prima ancora che ai nostri. È come togliere quella sensazione di essere maledetto che, forse, albergava nel suo cuore, da anni. Lo storpio non comprende immediatamente: sottostà alla richiesta, come ad un ricatto, per ricevere una moneta, nulla più. E, chissà, forse, al sentire, da Pietro, che non aveva né argento né oro, ne era rimasto, temporaneamente, deluso! Bisogna però, sempre ascoltare fino in fondo, quando una persona parla.

Pietro era disposto a donare qualcosa di più grande di argento ed oro, di qualunque ricchezza e potere. La libertà dal male.

Si era ricordato di quella parola che aveva ricevuto (“qualunque cosa chiederete, nel mio nome, ve la concederò”). Infatti, proprio nella conclusione della frase, troviamo la consapevolezza del Pietro-discepolo. Il Verbo non può essere imprigionato, ma, nel nome di Cristo, anche al discepolo è consentito di proseguire l’opera di libertà del Maestro.

La guarigione dello zoppo provoca un tale stupore negli astanti, che Pietro è quasi costretto a dar vita ad una catechesi biblica, come Cristo fece con i discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-23). Sì, se vi domandate da cosa nasca quella cascata di letture della Veglia, sappiate che è Lui che ha cominciato. Lungo la strada verso Emmaus.

Ma ha fatto bene: è necessario far memoria. Perché «l’uomo della pietra e della fionda», che è lo stesso della «carlinga» (Salvatore Quasimodo), ha necessità di raccontare. Davanti al fuoco di un camino, come su Zoom: raccontare e raccontarsi è inscritto nel cuore dell’uomo. È la sua ricchezza. E, in particolare, far memoria del bene ricevuto. Perché il rischio di dimenticarlo è troppo alto, quando la delusione, come nella strada da Gerusalemme ad Emmaus, prende il sopravvento, le orecchie si chiudono e solo un Pane Spezzato è capace di ridare vigore alla fede: è la Parola che, fatta carne, diventa catechesi viva, capace di illuminare i sensi.  

Non è un caso se la liturgia sceglie di soffermarsi tanto a lungo sulla Pasqua (il tempo pasquale prosegue, infatti, non solo per tutta l’Ottava, ma giunge, dopo sei domeniche, fino alla solennità dell’Ascensione). Si tratta del mistero centrale della nostra fede, attorno cui ruotano tutti gli altri.
Nella Resurrezione di Cristo vediamo prefigurata la nostra: il nostro corpo mortale è destinato a sperimentare la gloria del Corpo Risorto dell’Uomo-Dio Gesù.
Quel Corpo che, a chi lo incontra, dopo la Resurrezione, è così diverso da lasciare senza parole, allibiti, provocare fatica nel riconoscimento. Ma, al contempo, è così – anche – empiricamente percepibile, da poter “camminare con loro” (Lc 24, 14), “spezzare il pane e benedirlo” (Lc 24, 30), oppure “mangiare” (tra gli altri: Gv 21, 15), nonostante possa, anche, entrare “mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano” (Gv 20, 19).

Sono angusti gli spazi che ci troviamo ad abitare, sono strette le prospettive che, spesso, la vita ci offre, siamo a volte intrappolati in situazioni da cui non vediamo possibilità d’uscita. 
La Resurrezione, che contempliamo in questi giorni, ci ricorda che, per quanto possiamo vivere delle sofferenze o delle difficoltà, non è questa la totalità della realtà che ci caratterizza. C’è un’ampiezza, a cui siamo chiamati di spalancare lo sguardo. Come lo storpio, che, per ricevere un dono più grande di quanto potesse sperare, è stato chiamato ad alzare gli occhi.
Siamo fatti per risplendere e accogliere l’Infinito che si offre alle Sue creature!


Rif: letture festive ambrosiane, nella II Domenica di Pasqua, anno B (At 4, 8-24; Col 2, 8-15; Gv 20, 19-31)

Fonte immagine: Pexels

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