Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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La Seconda Domenica d’Avvento ci pone innanzi agli occhi Giovanni Battista, come prefigurato dal vaticinio del profeta Isaia: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri» (Is 40, 3-4).
Quante volte avremo sentito risuonare queste parole, durante l’Avvento. Il rischio è che perdano il loro significato più profondo. La prima cosa che colpisce è la concretezza di queste parole. Nell’esortazione, cogliamo la concretezza: quasi, ci pare di vedere all’opera uno stradino, dopo una settimana di maltempo; è chiamato a ricostruire, mettere in sesto e maggiore sarà la cura che vi porrà, maggiore è il riguardo atteso nei giorni seguenti, in quelle zone. Eppure, da chi proviene tale esortazione? Non si parla di una persona. Quasi sia secondario da chi arrivi tale indicazione. Si parla di una voce. È una voce quella che esorta. Ha perso ogni consistenza corporea, com’era, in un certo senso, per il Battista che, sulla scia dell’usanza in vigore tra profeti ed eremiti, in cerca dell’essenziale, si curava ben poco del corpo che custodiva la sua preziosa anima, come sottolinea il Vangelo:

era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico (Mc 1, 6)

Voce è quindi ciò che rimane del Battista, tolto il superfluo, volontariamente eliminato: convincente, potente, capace di farsi ascoltare, persino nel frastuono; forse, questa voce è convincente, proprio in virtù dell’essenzialità a cui richiamava quel corpo penitente, capace di ricordarci l’importanza di ricordare il nostro essere bisognosi. Ci disorienta, ci annichilisce, quasi ci offende la consapevolezza di aver bisogno. Tanto che ci ritroviamo a pensare, anche troppo spesso “Ah, io, in quelle condizioni mai. Preferirei morire”. È un sintomo, evidente, di come la cultura attuale sia impregnata dell’idolatria dell’efficienza: se non sei autonomo, non vali abbastanza. Quale immane illusione, l’autosufficienza. Nessuno è ontologicamente autosufficiente. E non c’è bisogno di uno sguardo filosofico. Basta molto meno.
Basterebbe guardare – con occhi attenti – la realtà, per rendersene conto. Senza le piante che, attorno a noi, producono l’ossigeno che noi respiriamo, saremmo già morti; senza le sostanze nutritive che non troviamo in noi stessi, non potremmo nutrirci. Dovrebbe bastare anche solo questo a ricordare ogni giorno che, dal momento in cui mettiamo un piede giù dal letto alla sera, quando, nuovamente ci corichiamo, non esiste un attimo in cui possiamo dirci veramente autonomi ed indipendenti. «Siamo nani, sulle spalle di giganti” come diceva Bernardo di Chartres, perché poggiamo il nostro sapere, di ogni tipo, su chi ci ha preceduto: se così non fosse, ogni generazione dovrebbe imparare daccapo tutto, dalle conoscenze più basilari e primitive alle più complesse.
Dov’è dunque tutta la nostra autonomia? Il Battista, come una sentinella, è un monito perpetuo a Chi deve essere il centro delle nostre vite: Dio, nel quale «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17, 28), come afferma San Paolo, nel discorso all’Aeropago. Solo in questa ontologica dipendenza dal Padre che ci ama, è possibile trovare pace, nella consapevolezza di non essere affatto autonomi e assoluti, come invece vorremmo.

Anche il Battesimo, talvolta, rischia di diventare una Grazia a cui abbiamo fatto l’abitudine. Con il fatto che, il più delle volte, è amministrato ai bambini poco dopo la nascita, il rischio è che sia vissuto come una sorta di “rito di ingresso in società” per il pargolo: non più di un’occasione come un’altra per presentare il nuovo nato. La liturgia, provvidenzialmente, ci pone occasione per riscoprire la ricchezza del nostro Battesimo, proprio nei cosiddetti “tempi forti” (Avvento e Quaresima). C’è un dettaglio che ritroviamo nell’arte dei battisteri, ma facciamo fatica a riallacciare nel rito del Battesimo, perché, con il passare degli anni, è stato molto semplificato e la pragmaticità ha prevalso sul simbolo. Questa simbologia la ritroviamo e la ritrova chiunque, in Terra Santa, si rechi presso il Giordano. Per raggiungerlo, occorre scendere una gradinata, bisogna abbassarsi, così come ciò è richiesto negli antichi battisteri; di più, spesso, in queste architetture, vi è un preciso numero di gradini. Sette, che richiamano ai giorni della Creazione. Nulla è lasciato al caso ed è significativo anche che la maggior parte delle vasche battesimali sia ottagonale: ai sette giorni della Creazione, è aggiunto l’ottavo. L’ottavo giorno è quello senza mai tramonto, quella dell’eternità, promessa in Cristo. È in quest’eternità di comunione con Dio che il cristiano è chiamato, a partire dall’immersione battesimale.
È necessario discendere i gradini della morte con Cristo, per rivivere con Cristo. È inevitabile pensare dunque, che tra i frutti del Battesimo da riscoprire la com-passione, cioè l’arte di uscire da sé, per condividere gioie e dolori di chi ci sta vicino, senza ospiti scomodi come invidia e gelosia. Potrebbe, anzi, essere questo un cammino da percorrere nei prossimi giorni, quale riscoperta del nostro Battesimo.

«Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo»(Mc 1,8)

Specifica, a scanso d’equivoci, Giovanni. Il più grande dei profeti, infatti, è battuto dal più piccolo nel regno di Dio. Parola di Gesù (Lc 7,28), di cui il Battista è pienamente consapevole. Quanto dovremmo imparare, nel nostro annuncio, da uno come Lui! Mostra una capacità di trovare il proprio posto e saper fare, fino in fondo e con perseveranza, il proprio compito. Senza pretendere, per quello, di ricevere gloria ed onore imperituri.
C’è un eroismo del quotidiano, di cui sono impregnate le nostre famiglie e le nostre comunità, di cui raramente ci avvediamo, dando per scontato quale prezzo possa celarsi dietro compiti semplici solo in apparenza ed il cui eroismo risiede precisamente nella fedele perseveranza (perché “chi è fedele nel poco, è fedele nel molto” – Lc 16, 10). Di contro, quante volte, invece, il nostro cuore è colmo d’insoddisfazione, finché non vede riconosciuto, fino all’ultima goccia, il proprio impegno?
Anche in questo, san Giovanni Battista diventa prefigurazione del Cristo e sprone alla nostra volontà precaria e ballerina. Nella capacità di dono totale di sé, fino all’abbandono fiducioso, consacrandosi, nella Verità, a Dio.

Rif: letture festive ambrosiane, nella Seconda Domenica di Avvento, Anno C (Is 19,18-24; Sal 86; Ef 3,8-13; Mc 1,1-8)


Fonte immagine:
TheTimesofIsrael

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