Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

luna

Uscendo di casa, la mattina hai dimenticato i rubinetti tutti aperti: è un diluvio d’acqua quello che, rincasato, ti trovi a dover gestire. Come comportarsi di fronte all’emergenza? Due sono le modalità, a seconda della capacità di tenere i nervi saldi: o prendere dei secchi e iniziare a togliere l’acqua (con i rubinetti ancora aperti) oppure, bagnandosi fin sopra i capelli, passare in mezzo a tutto quell’oceano, cercare ogni singolo rubinetto aperto e chiuderlo. Poi, bloccata la causa, iniziare a liberarsi dell’acqua. E’ un ragionamento di idraulica-del-buon-senso che il Leopardi, uomo di poesia, ha confidato alla luna: «E quando miro in ciel ardere le stelle, dico fra me pensando: a che tante facelle? (…) Che vuol dire questa solitudine immensa? Ed io che sono?» (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). E’ errante il pastore che invoca: la luna, stando fissa, lo va interrogando sul mistero di quell’«infinito seren» che, inconsciamente, gli evoca l’immensità della sua provenienza, del suo vagare. Del rubinetto da chiudere, prima di iniziare a togliere l’acqua d’intorno.
La piazza è divisa, sono due piazze distinte: la piazza di chi, invocando la tutela dei nuovi diritti, li reputa segno di civiltà e la piazza di chi, vedendosi attaccato, li colpevolizza d’essere un attentato ai valori fondanti. Questa, però, è solo l’analisi grammaticale del problema: quella esposta con dovizia di termini da chi, pur competente, rischia di far apparire il cristianesimo come una verità “astrattamente vera”. Vera, certo: incapace, però, d’incunearsi in quelle «crepe» attraverso le quali, come ha tratteggiato don Julian Carron, il Mistero si lascia intravedere da tutti. E’, questa, l’analisi logica della medesima questione in atto. Che diventa, di rigetto, l’unica domanda, quella che accomuna: da dove nasce questo bisogno di vedersi rassicurati nelle proprie scelte feriali? La semplice domanda è già una mezza rivelazione: s’avverte la voce di una mancanza – «Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno» (Luzi) – di fronte la quale s’avverte l’urgenza di una risposta. Chi ha il dono della fede, risalirà le sorgenti del Mistero per andare a cercarla laddove la risposta è un volto che, illuminando, appaga. Chi è “maggiorenne” al fatto cristiano, la ricercherà nella stringatezza di un vivere che, altalenante com’è delle scelte umane, vivrà sempre di provvisorietà. A questa domanda, nessuno potrà fuggire. E’ l’eterna triade – “Chi sono, da dove provengo, verso dove sto andando” – che genera avversione e fascino. Anche la diatriba della piazza.
La verità cristiana, però, non è solo un concetto: è una Presenza storica. Il Natale cristiano – che la teologia chiama “Incarnazione” – è l’opposto della diminuzione del divino: è l’elevazione massima dell’umano, umanizzazione prima che evangelizzazione. E’ la grazia di sapersi parte di un Mistero che, svelandosi nel vivere, mostra l’uomo a se stesso. Da anonimo che era nell’Antico Testamento, Dio si fa compagno di viaggio nella storia: non sopra, non a fianco, non girandoci attorno. Sfacciatamente dentro i suoi mille casini, nel greto delle diatribe, nel frastuono di mille desideri parziali. Forte di un paradosso, un insulto al buon senso: «Creando la libertà, Dio, in un certo modo, si è reso dipendente dall’uomo. Il suo potere è legato al “sì” non forzato di un essere umano» (J. Ratzinger, Gesù di Nazareth). E’ solo percependo questa amicizia divina che l’uomo impara a definire se stesso con libertà, riflettendosi nel volto di quel Dio che Ponzio Pilato, sbadato com’era, ha rivelato dandolo in pasto alla folla: «Ecce homo» (Gv 19,5). Detto così, per antonomasia.
Quello del Dio cristiano è un volto di fronte al quale l’analisi grammaticale, per una volta, viene dopo quella logica: in una chiesa ospedale da campo la valutazione dei trigliceridi è successiva all’aver salvato la vita. All’annuncio della salvezza: Dio ti cerca, non te lo perdere, altrimenti sei perduto. Detta con la teologia sottomano: la Scolastica è piena di cose astrattamente vere. Rimane la sfida, sempre avvincente, di renderle persuasive. Di più: performative, nel nome del medesimo Dio che, partendo dai desideri ridotti della donna samaritana, seppe farle nascere, senza forzature, la sete di un’acqua che fosse per-sempre. Le porse l’aggancio con la sua storia della salvezza: “bevendo di quest’acqua, rischierai di capire chi sei, da dove vieni, verso dove stai andando”. Un’acqua che le viene offerta dopo averla ascoltata e, genialmente, averle fatto nascere il sospetto che la legge non poteva soddisfare la sua insoddisfazione: l’incontro con Cristo fece accadere qualcosa dentro di lei. Dentro l’umano: che la storia non cambia a forza di opinioni ma con l’esempio. La testimonianza di un Dio il cui nome è misericordia: senza, il rischio è di scendere in piazza per salvare la cultura d’Occidente, della quale mi reputo figlio, senz’accorgermi che le sue esequie si sono concluse anzitempo. E’ da queste figure-barbine che il realismo cristiano ci salva: essere nel mondo, non del mondo. Delle sue logiche effimere.
Rendere l’uomo a se stesso, dunque, è il dono folle e bambino del Natale cristiano. E’ riflettendosi in esso, come in uno specchio, che la creatura impara ad essere molto-di-più delle sue scelte. Ad essere, e a valere, molto prima d’imparare a scegliere, a farsi valere: le sue scelte diverranno la rivelazione pubblica del suo essere. Rivelazione che, in qualche caso, diventa rivoluzione: è il martirio cristiano, il Volto Crocifisso del Risorto. Agganciato con l’infinito – che cos’altro dovrebbe fare un educatore se non ricordare alla creatura la sua capacità d’infinito? – l’uomo sarà sempre superiore alle scelte che compirà. Non sarà mai il suo errore, ma rimarrà un uomo che potrà sbagliare. Non sarà mai la sua malattia, ma rimarrà un uomo che, qualche volta, affronterà il dolore. E’ una creatura alla quale il Cielo ha fatto dono di una storia, da viversi con i piedi per terra, gli occhi al cielo. Ecco perché il cristianesimo è infinitamente di più della banale condanna del gender: è ricordare all’uomo la sua alleanza con Dio. Un accanimento giudiziario dopo i fatti dell’Eden? Anche no. L’essere esentati, piuttosto, dall’angoscia di doversi costruire l’essere partendo da zero, senza addestramento, catapultati a caso nella storia. Anche martoriati dal dipendere esclusivamente da noi stessi. Nascere con addosso la certezza che tutto ciò che accadrà nulla potrà contro la dignità di se stessi è evitare la leopardesca constatazione che sia «funesto a chi nasce il dì natale» (Leopardi).
Charles Peguy, ironicamente ma non tanto, era profondamente convinto che si parte sempre dalla mistica ma si arriva sempre alla politica. Eccola la vera mondanità della questione: fare di un valore religioso un’arma di consenso. Formare un’opinione non crea consensi immediati: a Nazareth, i familiari di Gesù, dopo averlo ascoltato, lo volevano rinchiudere perché pensavano fosse pazzo. Cosa fece? Scelse di non scegliere altro eccetto quello che aveva già scelto: dentro la finitezza del quotidiano, far nascere il desiderio del Mistero. Senza, per questo, condannare a priori l’uomo ma svelandogli la sua capacità d’infinito: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» (Gv 1,42). Cambiare il nome non è disprezzare una storia: è darle un’identità, una provenienza, una direzione. E’ partire dall’effimero per additare all’Eterno. E’ riproporre l’attrattiva-Cristo, scegliendo alla perfezione dogmatica della Scolastica il rischio evangelico dell’incontrarsi. Un incontro che, memoriale del nostro incontro con Cristo, sogna di sanare la storia dal di dentro.
Da fuori, con nozioni astrattamente-vere, non fu possibile neanche a Dio.

(da Il Sussidiario, 29 gennaio 2016)

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