Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

MuhammadAlì

Stracciò qualsiasi altro paragone, di quelli prima e ancor più di quelli dopo il suo passaggio. Tanto da essere ribattezzato in vita “The greatest” (“il migliore”). Quando nel 1984 Cassius Marcellus Clay jr – divenuto celebre con il nome di Muhammad Alì – lasciò i ring nei quali tanta della sua celebrità aveva trovato ragione d’essere, s’accorse d’essere già dentro quell’unico ring che non si sceglie mai d’abitare, tant’è efferato l’aspetto: quello della malattia, del morbo di Parkinson. Le Olimpiadi di Roma 1960 gli resero gloria e onore tributandogli l’oro nella categoria dei pesi massimi: uno dei punti più vertiginosi della vita del grande Muhammad. Chi non ha abitato il fasto di quell’anno, come chi scrive, di Alì ricorda l’altra immagine che lo rese intimamente umano, un raddoppio di eroismo: gli istanti che lo ritraggono come ultimo tedoforo in occasioni delle Olimpiadi di Atlanta ’96. In quella notte, all’uomo delle cento vittorie (e delle solo cinque sconfitte) riuscì l’impresa di commuovere il mondo senza i guantoni addosso, mostrandosi assai fragile e manomesso nelle sue funzioni. L’uomo che si stava lentamente spegnendo, accese il fuoco che, da millenni, dicono essere sacro agli dei. Il suo corpo somigliava ad una farfalla appesantita dalla vecchiaia, il suo gesto teneva la stazza della puntura di un’ape: «Volare come una farfalla e pungere come un’ape», come lui stesso si era definito.
Mai come nella malattia si vede quel che vale un uomo: ne erano convinti i grandi santi della tradizione cristiana. Ne è convinto il mondo ogni qual volta, reso muto dalla forza della testimonianza, s’imbatte nel controsenso che è stato proprio di Alì: è diventato grande – grande da sembrare infinito – quando è diventato fragile, smisuratamente debole. Lo sport è un album incomparabile di biografie divenute celebri nel momento di una sconfitta, l’esatto contrario della ragion d’essere della gloria. Alex Zanardi, nella sua prima vita, fu un onorevole pilota di automobilismo. La sua quasi-morte lo ha restituito al mondo con una forza che oggi pare inarrestabile: così fragile da sembrare infrangibile. Giovanni Paolo II guadagnò il cuore del mondo lasciando che la bava gli carezzasse il volto, striandogli rovinosamente l’immagine: la fragilità che mai nascose, gli valse il titolo di veramente-uomo, oltrechè veramente-di-Dio. Storie, volti che lasciano come traccia un testamento epico: se è vero che «siamo affetti da una malattia con prognosi riservata: l’esistenza» (C. Gragnani), è altrettanto vero che certuni tra gli uomini e le donne vengono alla luce per insegnarci che non esistono le malattie, esiste solo la gente malata. Che nessuna fragilità potrà mai essere additata come causa di fallimento. Condizione di resa anzi tempo, quasi a voler lasciare traccia di un fastidioso sospetto: solo perché tu non sei malato non vuol dire che tu sia anche in buona salute.
La mano tremante, le gambe amputate, la bava alla bocca. L’assurdo lasciato scritto da Paolo di Tarso e piombato dritto nella storia sacra: «Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze (…): infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). La forza nella debolezza, la vittoria nella sconfitta, la perla nell’ostrica: nessuna perla si scioglierà nel fango. Anche cattivi, se è vero che non c’è bellezza senza ferocia: «Ho odiato ogni minuto di allenamento. Ma mi dicevo sempre: soffri ora e vivi il resto della tua vita da campione», annotò un giorno Alì nel suo diario. Chissà la storia come deciderà di chiamarlo: se Marcellus Cassius Clay o, piuttosto, Muhammad Alì. Chissà cosa deciderà di trattenere di lui: i guantoni della boxe, il testimonial della supremazia nera, la cattiveria agonistica. Per me, scelgo io: l’uomo malato che accende il fuoco di Atlanta. Il più grande quando mostrò d’essere il più fragile. Riposa in pace, Alì.

(da Il Mattino di Padova, 12 giugno 2016)

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