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Siamo nel VI secolo a.C. e l’autore della Prima Lettura (riconosciuto come “secondo Isaia”) intravede già la fine dell’esilio babilonese, dipingendo, con entusiasmo e grandiosità il rientro in una Gerusalemme, nuova, rinnovata e liberata.
Come accade in altri passi, il popolo dell’Antica Alleanza è raffigurato come una sposa, che è riaccolta tra le braccia dello Sposo (Dio stesso) dopo un periodo di lontananza:

«Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti raccoglierò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore. Ora è per me come ai giorni di Noè, quando giurai che non avrei più riversato le acque di Noè sulla terra; così ora giuro di non più adirarmi con te e di non più minacciarti. Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia» (Is 54, 7-10)

Nel brano, emerge il contrasto tra il tempo breve dell’allontanamento e l’affetto di Dio, che non solo è sconfinato nel tempo, ma anche nella grandezza. Di più, risulta una parola irrevocabile, non “rimangiabile”. Una Parola affidabile e vera, indipendente dall’incostanza del popolo d’Israele che, come tutti gli uomini, del resto, non è capace di avere un amore puro, fedele, disinteressato, gratuito, come quello di un Dio capace di andare oltre le infedeltà, le apparenze, le incostanze, le contraddizioni che abitano il cuore dell’uomo. L’alleanza richiama un accordo, che, nei fatti, non potrà mai essere biunivoco. Il popolo eletto metterà alla prova la pazienza di Dio, con l’infedeltà e con l’idolatria, che, però saranno occasione per sperimentare la riconciliazione ed il perdono, di chi, pentitosi, si rende conto che il cammino intrapreso per propria decisione gli è ostile e lo allontana dalla felicità.

“Perché giudichi? Perché disprezzi tuo fratello?” domanda san Paolo, nella lettera ai Romani. Alla luce della seconda lettura e del Vangelo, forse la prima domanda è: a chi ho pensato, durante la Prima Lettura? Se la risposta è qualunque, altro, eccetto me, forse, la mia attenzione è troppo rivolta a giudicare gli altri rischiando di non vedere, coi propri errori, le conseguenti occasioni di perdono e di riconciliazione.
Nel Vangelo, Gesù racconta la parabola, arcinota ma mai inopportunamente reiterata, del fariseo e del pubblicano. Da una parte, il primo, enumera le proprie pratiche pie ed evidenzia il proprio essere nel giusto, al contrario di quanto fanno “gli altri”. Dall’altra parte, il pubblicano, consapevole di essere torto, non alza gli occhi da terra e domanda soltanto perdono. Alla fine, garantisce Gesù, chi credeva di essere nel giusto, non tornerà a casa giustificato, mentre il pubblicano, che svolgeva un mestiere, di per se stesso, vituperato e scandaloso, tornerà a casa giustificato. 
San Paolo, infatti, ci ricorda che «ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio». Di se stesso, anzitutto. Non degli altri; piuttosto, di quanto ha compiuto per rendere più spedito il cammino di chi gli stava accanto. Ecco, perché, nel finale, nota un’altra attenzione, con cui sostituire quella dell’occhio rivolto al male altrui: «piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello». Perché, magari anche senz’accorgercene, con leggerezza o pressapochismo, il nostro comportamento è diventato scandalo, che, magari, vuol dire semplicemente che ha messo in difficoltà, in imbarazzo qualcuno.
Spesso, poi, basterebbe poco a togliere dall’imbarazzo e a far sentire più a proprio agio una persona. Alle volte, attribuiamo reciprocamente un significato distorto od errato a uno sguardo, a un gesto, ad un’intonazione e, sulla base di ciò, costruiamo interi palazzi di elucubrazioni che, però, esistono soltanto nella nostra mente. Alle volte, il nostro linguaggio non verbale non è chiaro. Coltivare la limpidezza e la trasparenza che ci fa chiedere, con umile semplicità: “C’è un motivo per cui hai agito in questo modo?”. Siamo tutti diversi. Ciò che per me può essere interpretato in un solo modo, per un altro può assumere un significato ben differente. Chiedere un chiarimento non è proibito, non mina la rispettabilità di nessuno e, anzi, potrebbe anche far scoprire una nuova prospettiva, un nuovo modo di vedere il mondo.

Tornando al Vangelo, forse, senza un sufficiente senso storico ed a seguito della ripetizione di questa famosa parabola, rischiamo di far fatica a comprenderne la forza, proprio perché l’abbiamo, forse inconsapevolmente, anestetizzata.

Un pubblicano è un pubblico peccatore, cioè i cui peccati sono noti. Potremmo dire che una persona pubblicamente condannata per qualche reato, magari anche vergognoso e condannato dalla (quasi) unanimità, come, ad esempio, la pedofilia. Come si poserebbe il mio sguardo se una persona così fosse in chiesa, a pregare? Scatterebbe il giudizio, oppure ricorderei che la Chiesa non è una comunità di perfetti, bensì di soggetti in perpetuo perfezionamento, sotto lo sguardo amorevole di Dio? Perché il problema vero non è essere farisei o pubblicani (forse, alternativamente, incarniamo un po’ l’uno e un po’ l’altro), ma lo sguardo che ho, su me e sugli altri, nel rapporto con Dio. Se mi metto a fare i conti, di chiunque siano le tasche, non tornano mai. Perché lo stile di Dio non è mai quello del do ut des: non ci ricompensa in base a ciò che meritiamo. Il Suo amore anticipa la nostra iniziativa, perché la provoca e la ricompensa secondo una sovrabbondanza di grazia, di cui spesso non ci accorgiamo, ma che rappresenta il “sigillo di garanzia” di ogni dono che provenga da Dio.

 

Rif. letture festive ambrosiane, nell’ultima domenica dopo l’Epifania, o “del Perdono”, anno B – Is 54, 5-10; Rm 14, 9-13; Lc 18, 9-14


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Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove

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