Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Two Broken Champagne Wine Glasses  with shards of glassand shattered glass on White Background

Mi piacciono, quanto mi piacciono Diommio, le persone vulnerabili. Quanto amo sentirmi dire dalla gente: “Sei un tipo troppo vulnerabile, Marco!” E mentre declinano quest’aggettivo, avverto tutto l’urto della sua mostruosa magnificenza: è il risultato della fusione del termine latino latino vulnus (“cicatrice”) con habilis, aggettivo che significa “capace, abile”. Uomo vulnerabile, dunque, è l’uomo che è abile a cicatrizzarsi: adesso lo vedi ferito, ma si riprenderà ben presto, vedrai. Penso, spesso, alle (poche) volte che ho pronunciato, in quarantuno anni, la più pericolosa tra le espressioni italiane: “Ti amo!” Pronunciandola, conoscendone il valore, si avverte tutta l’oscurità: pronunciarla è fare ammissione di vulnerabilità. È un po’ come dirle: “Sappi che potresti farmi molto male. La ferita è aperta: sto cercando di cicatrizzarla bussando al tuo cuore”. Mi spiego così, quando guardo la storia, il fatto che, sovente, un uomo sposa la donna che si è presentata nel momento di maggior vulnerabilità. E viceversa. Di giorno, dentro la fossa di una patria galera, presto ascolto al cicatrizzarsi di ferite, scorgo il sangue spurgare, avverto tutto il rischio dei punti di sutura che stan per saltare, rilevo il fatto che per certe ferite occorreranno operazioni d’alta chirurgia, con il bisturi, a rischio-vita. Frequento la vulnerabilità quella fatta carne, e la vulnerabilità mi appartiene così tanto fino all’osso che, fosse per me, sarebbe il valore aggiunto da apporre alla mia carta d’identità, alle cartacce e alle parole che mi descrivono davanti al mondo: “Segni particolari: vulnerabile (Prestare attenzione)” Massima, tra l’altro.
Sarà forse per questo che, quand’incontro qualcuno che ha perso qualche battaglia, mi ci siedo accanto, e mi sento benissimo a casa. “Se ti mostri un po’ vulnerabile, posso permettermi di avvicinarmi” mi scrisse, adolescente, una mia amica che, lo capii tardi, mi rifiutavo d’avvicinare: “Il giorno in cui, con qualcuno, riuscirai a mostrarti vulnerabile, con quello ti sentirai imbattibile” promise al mio cuore ostinato. Oggi che quell’amica l’ho perduta tra le strade scorbutiche della vita, mi è rimasta addosso con quella sua promessa avveratasi: per sentirmi forte, sento che devo condividere la vulnerabilità. Con Antonio, Carmine, Carlo. Con lei, con lui: con chi, nella vita, ha tanto coraggio da spartire i difetti. In ogni Achille c’è un tallone a disposizione: per vincerlo, oppure per interrogarlo. E, condividendo tra vulnerabili i talloni, riuscire a farli diventare dei punti di forza. Il trampolino della (nostra) libertà: “Hai ragione: ieri sono stato un delinquente. Di quel passato, però, sono rimaste solo le cicatrici, la ferita si è chiusa” mi disse un giorno uno in galera. E’ vero quello c’è stato, è accaduto così: ammissione di vulnerabilità. La ferita si è chiusa, però: complemento di futuro a disposizione.
Rielaborazione del fallimento in corso, a rischio accadimento.
Sui talloni si può anche colpire: fatto è che, probabilmente, la vulnerabilità luccica, altrimenti non si spiegherebbe perchè, quando si vuol colpire qualcuno, lo si faccia sempre esattamente in quel punto. Altrimenti non si spiegherebbe se chi vuol colpire una madre, anche La (Gran) Madre, vada a colpire i suoi figli: il tallone d’Achille di una donna sono i suoi bambini. Il tallone d’Achille di Dio sarà sempre l’uomo vivente: “La gloria (e il tallone) di Dio è l’uomo vivente”. Mi piace da impazzire la mia vulnerabilità: non sono un ragazzo perfetto, vivo dentro una stagione di inquietudini, faccio girotondi attorno al mio sacerdozio, sopravvivo perpetuamente in volo sul ciglio della vita. A tenermi in vita non è la compagnia degli onesti, la forza dei potenti, tantomeno la conoscenza di chi (non so dove) conta qualcosa. Sopravvivo grazie all’amore dei perdenti, dei perduti, dei caduti: accarezzarne, come un surfista accarezza l’onda per imbonirsela, le loro ferite, m’aiuta ad abbassare le mie difese: entro in mare che mi sento imbattibile, esco che mi sento vulnerabile. Vulnerabile, appagato: d’aver scoperto, navigando sul mare, che ad essere (in)vulnerabile non è ciò che non viene colpito, ma quello che, colpito, non viene distrutto. Sono vulnerabile, dunque sono vivo. E amo.

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte  2 Corinzi 12,7-10).

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