Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

ScuolaCalvene

È stato il luogo delle prime volte: di quando scrissi il mio nome-cognome a lettere unite, di quando andai in gita al castello di Marostica e mi sembrava di andare ad esplorare lo spazio, di quel bacio vergine e fulmineo sulle labbra della più bella della mia classe. Della prima tirata d’orecchie, di quella volta che ci lanciammo fuori dalla finestra perché “Maestra, la neve tocca il davanzale!”, di quando la maestra impazziva nel mettere le redini a otto cavalli (di razza) che scalpitavano. Il luogo in cui conobbi la parola “nota” e la parola “merito”, il colore rosso delle correzioni, quello blu dei voti. Tornassi bambino e mi chiedessero di salvare soltanto due cose di quella stagione meravigliosa ch’è stata la mia fanciullezza, toglierei persino lo sport e l’oratorio pur di salvare la scuola materna e quella elementare: “Toglietemi tutto – m’impunterei con i pugni chiusi, sfidando persino il preside – ma lasciatemi andare a scuola!” Perché scuola non è solo una parola, uno stabile, una cartina appesa sul muro: ancora prima, è una stagione, un’occasione, un accadimento. Quello spazio così fanciullo dove i bambini crescono e si fanno grandi e i grandi, quando ritornano con i piccoli, vorrebbero tornare bambini. Ricordo il viaggio in pulmino, lo zaino in spalla, le partitelle alla ricreazione. I Kinder-Bueno rubati, i panini scambiati, le felpe prestate e mai ridate. Gli appuntamenti del pomeriggio, i compiti fatti con gli amici a case alterne, le amate ore di ginnastica. Gli scherzi ai vecchietti del paese che minacciavano vendetta – “Sono bambini!” li rimproveravano i più intelligenti -, i fischi alle bellezze nostrane (poche ma squisite!), le letterine d’amore per i primi approcci all’altro sesso. I baratti durante i compiti in classe: “Io ti passo le espressioni, tu dammi l’analisi logica”, le furberie per scopiazzare meglio, le gambe tatuate di appunti, i fazzoletti ripieni di bigliettini, la catasta di libri sul banco che la professoressa manco riusciva a vederti mentre sonnecchiavi. Io, a scuola, mi sono divertito un casino: per questo ho imparato tante cose. Perchè ero nelle condizioni di farlo divertendomi.
Ricordo gli assembramenti, nel piazzale della scuola, prima che suonasse la campanella; le discussioni coi compagni che, puntualmente, trovavo sbattuti fuori dall’aula come me. Rammento con il batticuore quella stagione suggestiva dove le uniche mascherine erano quelle del Carnevale e delle sagre paesane. Non è vero che la mia generazione è andata a scuola per imparare la storia, la grammatica, i teoremi: a scuola, noi ci siamo andati ad imparare l’amore per la verità, la giustizia, la bellezza. Per questo, la mattina, era una felice via crucis incamminarsi verso quel luogo del cuore: ci avrà anche fatto dannare, tribolare, tremare e inquietare ma ci siamo pure divertiti a rendere quel posto una casa piena di segreti (mai confessati). Di quegli anni, le mitiche elementari, ricordo la magia di quella donna chiamata maestra che ci guardava, ci stringeva fortissimo, ci dava qualche carezza: non teneva due metri di distanza, aveva addirittura portato giù la cattedra dal piano rialzato. “Bambini, sistemiamoci a ferro di cavallo, così ci guardiamo in faccia!” diceva. E così, guardandoci faccia a faccia, si eleggeva il capoclasse, ci si faceva l’occhiolino, si stringeva la mano della Sara fingendo di stiracchiarsi un po’. A giugno, poi, si era felici di chiudere l’anno scolastico ma, a settembre, lo si era di ricominciare: “Non ne potevo più di stare a casa” dicevamo. La verità: assieme era una magia.
Al mio paese, ogni volta che ritorno, passo vicino alla mia scuola: un po’ come fosse un santuario. Lo è: “Caduti per la libertà” hanno scritto sulla facciata, a mo’ di dedica. Quella parola, libertà, a noi ci ha insegnato a stare in piedi invece che cadere: siccome la scuola ci ha aperto la porta, si era chiusa quella di una prigione, la schiavitù dell’ignoranza. Gli anni più belli della mia vita: finita la scuola, non tornavo a casa solo con i compiti da fare, ma anche con delle cose su cui pensare. Ho avuto maestre così giganti che, oggi, se le incontro, le stringo forte come fossero amori di donna. Perché lo sono: l’Assunta, la Rosanna. Solamente una cosa, pensando alla scuola, mi procura tristezza: ma con la DAD, avrei potuto vivere tutte queste cose? Non penso, purtroppo. Per questo, quando vedo un bambino incollato davanti ad uno schermo, mi dico: “Ma questa non è scuola. Non è vita da bambini. Non s’impara senza l’altro”. Capisco tutto, ma proprio non capisco una cosa: come si fa ad imparare senza divertirsi? Volere insegnare a distanza è come voler amare tenendo le distanze: sono amori di comodo. Al massimo ci si fa compagnia, si passano quattro ore, si sono fatti “i compiti per casa”. La mia sì, invece, è stata scuola!


(nella foto la Scuola Elementare di Calvene (VI), la mia scuola, la più bella del mondo. Qui sono stati allevati fior di testine, piccoli geni. Da grandissime maestre)

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