La liturgia provvede, provvidenzialmente, a spezzare – senza troppi complimenti! – sin dal giorno successivo alla Natività, i melensi artifizi che abbiamo proditoriamente aggiunto all’evento natalizio.
Al 25 dicembre succede, infatti, la scia di sangue del protomartire Stefano (26 dicembre), cui segue la festa di San Giovanni Evangelista (morto ad Efeso, molto anziano, dopo aver trascorso anni in carcere nell’isola di Patmos, nell’attuale Grecia) ed infine la festa più contraddittoria,eppure più intensa, quella dei Santi Martiri Innocenti (28 dicembre), a chiudere un anello di celebrazioni in cui la testimonianza di Cristo è cosa drammaticamente seria e non pantomima acchiappa-consensi.
Del resto, non c’è bisogno di andare tanto lontano nel tempo. Lo stesso 2018, appena concluso, si è rivelato all’insegna della persecuzione ai cristiani.
Hanno conquistato l’onore delle cronache, più volte, quest’anno, perché vittime di persecuzione religiosa, i cristiani copti, in Egitto. Il riattivarsi delle vicende giudiziarie di Asia Bibi ha portato alla luce, anche per i cristiani d’Occidente più distratti, quanto sia difficile, in tante terre di questo mondo, credere in Gesù Nazareno.
È, poi, di questo mese (dicembre 2018) la beatificazione dei 19 martiri d’Algeria, rimasti uccisi nella sanguinosa guerra, occorsa tra il 1991 e il 2002, che oppose gli islamisti del Fronte Islamico alla giunta militare al potere ad Algeri ed in cui furono coinvolti per l’ostinazione d’amore del rifiuto di non abbandonare quella terra martoriata, solo per la paura di trovarvi la morte. L’episodio più noto è quello di sette monaci trappisti del monastero di Tibhirine, dei quali, due mesi dopo il loro rapimento, furono ritrovate solamente le teste.
Per non parlare, del resto, della persecuzione, mai sopita, nei confronti di martiri innocenti, unicamente colpevoli di non essere abbastanza sani: questo è stato l’anno di Alphie Evans e Isaiah Astrup, capostipiti di chissà quale grande (ahimè) numero di piccoli, soppressi senza pietà dagli ingranaggi di una burocrazia medica che, al contrario di san Giuseppe Moscati che poneva al centro una visione integrale della persona («il dolore va trattato come il grido di un’anima a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità») , mette invece al centro il profitto e l’efficienza.
È chiaro che, in una simile visione della scienza medica, ogni malattia cronica che risulti attualmente inguaribile, non risulta degna di essere trattata, perché le speranze di guarigione rasentano il miracolo (cioè l’eccezione alla regola). La persona, però, risulterà sempre curabile (nel senso inglese del “take care”, prendersi cura, farsi carico della sofferenza e del dolore altrui, magari alleviandolo ove medicalmente possibile). Ecco quindi evidente come, oltre che poco cristiana e – in aggiunta poco umana – una simile prospettiva risulti anche poco lungimirante e – conseguentemente – poco rispettosa di una scienza medica in sviluppo sul lungo periodo: se, infatti, non esiste, alla situazione attuale delle conoscenze mediche, una possibilità di guarigione, cosa impedisce però che curare un paziente inguaribile non possa rivelarsi una fonte di speranza per la ricerca che avrà frutti per chi verrà dopo di lui, anche se non per lui stesso?
Questi piccoli, pur nella loro fragile vita, hanno saputo unire i cuori di milioni di persone che, in tutto il mondo, si sono stretti attorno a loro per proclamare con forza che ogni vita è sacra, non in base alle leggi dell’efficienza e del profitto, bensì perché su ciascuno di noi c’è un progetto unico ed irripetibile. E abbiamo – anzi – visto quanto può fare un piccolo bambino, quando si ribella agli ingranaggi e si ostina a diventare quel granello che ferma gli ingranaggi. Come quel Bambino che scombinò I piani del potente erode, rendendo palese quanto fosse ridicola la sua (che è la nostra) superbia di temere che quel Bimbo ci porti via qualcosa, invece che donarci Tutto, come – invece – fa!
In mezzo a tanti martiri, san Giovanni, l’Evangelista, pare quasi perdere credito, nonostante, anche solo per lo splendore teologico del Vangelo che ci ha donato dovremmo essergli grati. Bisogna anche riconoscere, d’altro canto, che passare anni in prigione, sotto la persecuzione di Domiziano, non è come trascorrerli in un resort e se possiamo dire che a san Giovanni fu risparmiato il martirio, non gli fu però negata la grazia di offrire la propria vita “goccia a goccia”, ogni giorno, nelle mani di Dio.
La sua vicenda ci aiuta, infatti, a pensare al dare la vita come ad una “passione delle pazienze”, come la definisce Madeleine Delbrel*. Perché, in effetti, se ci pensiamo bene, anche noi abbiamo la nostra passione ed è solo fuorviante metterci a fare i paragoni con quello che è il progetto che Dio ha sugli altri: talvolta, la fatica più grande è quella di rimanere dove siamo stati posti, invece di cercare “vie di fuga”, quando la situazione non è idilliaca.
Il 2019 che viene ci aiuti a ricordare che, spesso, la via che conduce alla pace vera, quella che alberga nel cuore degli “uomini di buona volontà”, spesso è in salita e passa attraverso un passo indietro dell’Io per poter adeguare la nostra alla Sua volontà. Anche se a volte risulta impegnativa e faticosa, la via dell’Amore è l’unica che sconfigge la morte dell’anima, come dimostra il Cristo che, accettando la Croce, ci apre la via del Cielo, riempiendo di senso questo nostro tempo mortale, che nel suo ripetersi ciclico, rischia – altrimenti – di rivelarsi vuoto di senso, come chi cammina nella notte, senza sapere dove sia diretto.
Fonte immagine: Pixabay
*Nota: La passione delle pazienze (di Madeleine Delbrel)
La passione, la nostra passione, sì, noi l’attendiamo. Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che ne scocchi l’ora.
Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover essere consumati. Come un filo di lana tagliato dalle forbici, così noi dobbiamo essere separati. Come un giovane animale che viene sgozzato, così noi dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l’attendiamo. Noi l’attendiamo, ed essa non viene.
Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di ucciderci senza la nostra gloria.
Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
È l’autobus che passa affollato;
il latte che trabocca,
gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gli invitati che nostro marito porta in casa e quell’amico che, proprio lui, non viene;
È il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
È la voglia di tacere e il dover parlare,
È la voglia di parlare e la necessità di tacere;
È voler uscire quando si è chiusi
e rimanere in casa quando bisogna uscire;
È il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
È il disgusto della nostra parte quotidiana,
È il desiderio febbrile di tutto quanto non ci appartiene.
Così vengono le nostre pazienze, in ranghi serrati o in fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.
E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando – per dare la nostra vita – un’occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che, come ci son rami che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che, se ci sono fili di lana tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che, giorno per giorno, si consumano sul dorso di quelli che l’indossano.
Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso: ce ne sono di sgranati da un capo all’altro della vita.
È la passione delle pazienze.
(Madeleine Delbrel, La gioia di credere, Gribaudi)