Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
gregoriano

Come celebrare una festa di nozze senza gli sposi. O festeggiare sotto il podio di una competizione una vittoria senza la presenza del vincitore. O, più semplicemente, celebrare una liturgia senza la presenza che le accrediti il suo significato primigenio. Il primo maggio è la festa del lavoro, una data che nell’immaginario collettivo s’abbina alla dimensione del lavoratore e dello stipendio, della dignità e della progettazione. Della vita. Anche quest’anno si celebra la festa del lavoro: eppure da qualsiasi parte la si guardi – che sia essa la festa del lavoro o la festa dei lavoratori – appare come una stridente stonatura: che senso ha festeggiare il lavoro quando la sua assenza è oggi cagione di mancanza di festa nel cuore della gente? Si festeggia ciò che procura gioia, procura gioia ciò che fa battere il cuore, fa battere il cuore ciò che partorisce la speranza: ma quando manca la speranza nel grembo della storia in nessuna casa è possibile la festa del cuore. Eppure si festeggia il lavoro lo stesso: magari più che la realtà ne festeggiamo la nostalgia, più che tratteggiarne la presenza ne decanteremo le lezioni apprese dalla sua assenza; ne parleremo per negazione che è sempre un parlarne, seppur con il vocabolario rattrappito della desolazione e della malinconia. La festa del lavoro proprio nell’epoca di massima assenza del lavoro: ch’è come organizzare una celebrazione l’acqua nel mezzo di un deserto screpolato dall’arsura. Un’apparente stonatura che vale però il senso di una festa. Perché non piangeremmo il lavoro se non ne avessimo conosciuto la sua preziosità, come non si piange un volto di donna senza prima esserne stati da esso sedotti. Ecco, allora, che la festa è una forma di risarcimento della gratitudine per tutte le volte che il lavoro c’era e non è stato apprezzato, per quelle volte che al trattore del contadino abbiamo risposto con l’arroganza di un vestito da ufficio perché lo ritenevamo indegno di una società evoluta, per quelle epoche poco lontane in cui l’uomo valeva per quello che produceva e non per il significato che esso procurava attraverso il lavoro. È un dovere, dunque, celebrare la festa del lavoro proprio nella sua massima assenza: una specie di retribuzione e di purificazione della memoria, un chiedere umilmente scusa all’arroganza del passato, un’esperienza del limite propria di ogni uomo che nasce sotto il cielo.
Eppoi non è vero che non ci sono lavoratori da festeggiare. Quest’anno, forse, potremmo dedicare questa festa a chi oggi tiene addosso il vestito da lavoro più pesante: quello di tenere accesa la speranza nel cuore della gente, di organizzare la vita sotto le macerie di un terremoto, di fare ripetizioni di fiducia nel mezzo di un campo profughi di disperazione. Sono forse i lavoratori più nascosti perché non agiscono sulla crosta della terra ma organizzano le manovre nel sottosuolo della storia: le loro fatiche non producono oggetti visibili perché è un significato che essi stanno tentando di far nascere. La loro scommessa non viaggia su dati visibili ma si regge sul filo di un senso da ridare all’uomo. È un mestiere, il loro, che non conosce crisi alcuna perché l’urgenza per l’umanità è sempre stata quella di dare uno scopo per cui vivere, una direzione alla quale tendere, un’inclinazione grazie alla quale operare. Forse davvero quest’anno c’è da festeggiare il lavoro oscuro di questi manovali della ricostruzione: mai come oggi, infatti, c’è urgenza di ridare un significato spirituale alla fatica dell’uomo. Significato che, anche in tempo di crisi e di ironiche soluzioni, rammenti all’uomo quello ch’è il primo lavoro di ogni creatura: quello d’imparare a sperare. Quella speranza ch’è il significato nascosto anche nel più umile tra i lavori: additare all’uomo un senso per l’esistenza.

(da Il Mattino di Padova, 28 aprile 2013)

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