TamaraLunger

Sono giorni che il popolo della montagna fa festa attorno ad una di quelle imprese che, da sole, bastano a rendere l’uomo orgoglioso dei suoi simili: la conquista della vetta del Nanga Parbat (8125 m.) compiuta durante il periodo invernale. Nessuno, finora, era mai riuscito a toccare la cima della “montagna maledetta” d’inverno: chi aveva osato anche solo sfidarne la maestà, depositò una cauzione mai restituita. Ciò che a nessuno era ancora riuscito, è diventato realtà pochi giorni fa, grazie alla passione cocciuta di un team contrassegnato dal tricolore: Simone Moro, Alex Txicon, Ali Spadara. C’era anche una donna in quella spedizione di maschi avventurieri, l’altoatesina Tamara Lunger: tosta, rocciosa, indomabile. Assieme a loro ha spartito oltre ottanta giorni d’alta quota, ha sfidato fino all’ultimo la vetta. A settanta metri dal sogno, uno di quelli che da soli bastano per cambiare la traiettoria di una vita, s’è fermata: ha deciso di abbandonare la sfida per tornare indietro sulle proprie gambe senza rischiare di mettere in difficoltà la discesa degli altri. «Una decisione che pochi al mondo avrebbero saputo prendere» ha commentato Moro iniziando la laude planetaria del gesto di Tamara. Si può, dunque, vincere anche quando si perde?
Chi conosce la montagna, sa bene che giocare al gatto-e-al-topo con lei, quando sai perfettamente di essere il topo, è l’azzardo per antonomasia: saperne rispettare la maestà, è poter apprendere l’elisir che fa di un’esistenza qualsiasi una vita degna d’essere vissuta. La montagna non è solo una vetta, un sentiero, una direzione. La montagna, in compagnia del mare, è ciò che più rassomiglia al mistero della vita: le loro due sono voci possenti, anche crudeli, dure indubbiamente, ma non c’è sincerità più grande della loro tra tutto ciò che accade nel quotidiano vivere. A cambiare dopo una scalata, infatti, non è mai la montagna: è colui che l’ha sfidata che, rincasato, non sarà più quello di prima. Quasi che, lassù, fosse andata a nascondersi una sorta di annunciazione che chiedeva d’essere svelata: ancor prima sognata, sedotta, inseguita. Dalla vetta, poi, non si potrà che scendere: ogni salita è per un ritorno. Ne era convinto fino all’osso anche Walter Bonatti, uomo capace di cime tempestose e di narrazioni da batticuore: «Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi». La montagna dipende dagli avventurieri: che la tentano, la conquistano. La falliscono: ci sono stati fallimenti che han permesso di portare a casa dettagli decisivi per le conquista. E’ fallendola che la montagna diventa irraggiungibile, irrazionale, invadente.
Tamara s’è fermata ad un passo dal sogno: «La sua arresa a pochi metri dalla cima non è una sconfitta ma la maturità di un alpinista che sa anche rinunciare» s’è affrettato a professare, quasi fosse un oracolo, Hervé Barmasse, uno dei più grandi alpinisti italiani. D’altronde, nella disciplina del salto in alto si può conquistare la medaglia d’oro olimpica anche facendo cadere qualche volta l’asticella. Arrestandosi quando la vetta era assai vicina, in un solo gesto Tamara Lunger ha celebrato una triplice signorilità. Ci sono pretese personali che, sovente, rischiano di compromettere il risultato della collettività: far fare un passo indietro alle proprie ambizioni è permettere alla comunità di portare a casa una vittoria. C’è un limite, che s’avverte benissimo, oltre il quale sporgersi è sfidare l’assurdo: arrestarsi un attimo prima è avere in tasca, domattina, la possibilità di ritentare la conquista. Ci sono destinazioni per raggiungere le quali occorre perdere il primo treno e prendere quello successivo: anche arrivare in anticipo è perdere del tempo. Nel gesto di Tamara ciò che per qualcuno è sconfitta per altri sono le prove generali di una celebrazione prossima a venire.

(da Il Mattino di Padova, 13 marzo 2016)

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