Ad un passo dal podio: quarto. Ai nastri di partenza, la sfida era quella di strappare al destino la medaglia colore dell’oro. O tutt’al più dell’argento: se la sorte, poi, avesse deciso per il bronzo, un posto sul podio alle Olimpiadi non è certo una iettatura da schifare. Le Olimpiadi, del resto, son la grande occasione dei manovali: dei faticatori seriali, di quelli che per quattro lunghissimi anni se ne stanno rintanati dentro il bunker delle palestre, sotto le tribune degli stadi, in piste lontane dai riflettori per farsi trovare pronti a quell’appuntamento. Che non puoi fallire: nel calcio, se perdi una partita, la settimana dopo hai la rivincita. Se perdi una finale, l’anno dopo hai un’altra chance: se perdi a Wimbledon potrai vincere agli US Open. Non tutti gli sport concedono, a stretto giro di tempo, una chance per rifarsi. La maggior parte di loro – anonimi per quattro anni – trovano le tre settimane delle Olimpiadi per dire al mondo: “Ci sono, esisto!” Questa è la ragione per cui, il giorno della sfida, alla partenza, metti in gioco tutto quello che hai dentro: ogni fibra ne è coinvolta, ogni goccia di sudore è versata. Tutto il parterre attorno non fa che accrescere l’agonismo: il pubblico eccitato, le grida scomposte, gli applausi scroscianti. E tu lì, in pista o sulla pedana, a cercare di sommare l’aiuto del pubblico pagante alla tua capacità di sofferenza per alzare di un millimetro l’asticella, spingerti un millimetro oltre, impiegare un millesimo di meno dell’avversario. Spingi, resisti, insisti, non molli, ti prosciughi. Si spegne la luce del cervello, il sangue fermenta, i muscoli minacciano vendetta. “C’è l’oro in palio!” ti dici per motivarti. Male che vada l’argento, sennò il bronzo. Poi, invece, appena tagliata la linea, appena finito il salto, al termine della prestazione cerchi il tabellone, scopri dov’è scritto il tuo nome, leggi vicino: “Quarto”. Tecnicamente “fuori dalla zona medaglie”. La medaglia di legno? Nemmeno esiste nella realtà.
Niente podio, niente bandiera che si alza, niente medaglia al collo: l’inno è di un altro, non è di quello del paese che rappresenti. “Che beffa, ti dici!” Eppure quarto alle Olimpiadi significa una cosa splendida: che al mondo, nella tua bella disciplina, li hai messi tutti dietro, eccetto tre. Significa che, al mondo, tu sei tra i primi quattro più forti: sono più quelli che hai lasciato dietro di quelli che ti sono finiti davanti. Quattro, purtroppo, è il numero dei dimenticati, di chi non è riuscito per un soffio, un millesimo, niente. E’ vedere che il sogno è ad un passo da te e tu non lo puoi toccare. E’ tantissimo: peccato che la gloria sia stata solamente sfiorata, senza poterla acciuffare. Le Olimpiadi, però, non sono solo questione di medaglie, sono molto di più: cuore, passione, coraggio, entusiasmo, fierezza. Sono il giorno in cui, sotto sforzo, ti ricordi la lezione della Nike di Samotracia: la battaglia è durissima e ogni vittoria costa sempre dei sacrifici. E un quarto posto alle Olimpiadi non è da gettare come sembra leggendo il tabellone: «La vittoria non è definita dalle vincite o dalle sconfitte – scrive Wolfang Schadler -. Essa è definita dall’impegno. Se puoi dire, sinceramente: “Ho fatto il meglio che potevo, ho dato tutto quello che avevo, allora sei un vincitore». Non per nulla la storia è pienza zeppa di medaglie d’oro mai più confermate e di medaglie di legno che, l’edizione successiva, son diventate d’oro, d’argento, di bronzo: coloro che sono capaci di vincere sono molto più numerosi di quelli che sanno fare un buon uso della loro vittoria. Un’arte, quella di vincere, che s’impara nelle sconfitte.
L’Italia, a Parigi 2024, è prima sul medagliere del “quarto” posto: sono 25 i quarti posti conquistati. Venticinque atleti che, ciascuno nella loro disciplina, si sono lasciati il mondo intero dietro: eccetto tre. Mica poco! Gente che ritorna da Parigi come si esce da un ristorante gourmet: con dell’appetito ancora in corpo, non vomitando per il troppo cibo ingerito. A Los Angeles 2028, la rivincita: dopo quattro anni passati a lavorare su quell’inezia che, stavolta, ti ha tolto il podio. Proprio un’inezia, che diventa la ragione di vita del prossimo quadriennio di vita.
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(*) A proposito di quarto posto. A Stefano Sottile (nella foto in alto), splendido quarto nella disciplina del salto in alto, gli hanno chiesto: “Gimbo (Tamberi) è un pò la tua ispirazione?” E lui ha risposto. “Non ho capito la domanda”. Campione anche di stile.
Una risposta
Bravissimo Stefano Sottile. Anche per la risposta. Grazie Don Marco e buona domenica a tutti voi.