resia

Il tempo che scorre adagio-adagio: “Non (mi) passa mai il tempo, uffa!” Il tempo che scorre con troppa velocità: “Quest’anno mi è letteralmente volato via!” Il tempo per tutte le stagioni: quello bello, quello brutto, quello cattivo. Il tempo della semina – dei legumi, del radicchio, del mais, del pomodoro – e il tempo del raccolto: “E’ tempo d’andare a vendemmiare, è la stagione delle castagne, la settimana perfetta per raccogliere i melograni. E’ l’ora dei cachi”. Il tempo delle persone: con alcune perdi tempo, con altre perdi la nozione del tempo, con altre ancora puoi recuperare il tempo perduto con le prime: «Stare con te o senza di te è l’unico modo che ho per misurare il tempo» (J. Borges). C’è chi perde tempo e chi cerca di guadagnare tempo: c’è chi si accorge di avere tempo e, per questo, non aspetta tempo. Il fatto è – ammonirebbe il filosofo Seneca – che non è affatto vero che abbiamo poco tempo: la verità, invece, è che ne perdiamo molto. Giacchè il tempo, a ben pensarci, è sempre lo stesso. A seconda di come lo si abita, però, tende a dare un’impressione diversa di sé medesimo: è troppo lento, quasi infinito, per coloro che aspettano, è troppo lungo per chi sta soffrendo, è troppo rapido per coloro che lo temono, è troppo veloce per coloro che stanno gioendo. Per chi ama, poi, il tempo è un anticipo (quaggiù) dell’eternità di lassù.
Vivere, insomma, è guerreggiare con il tempo, contro il tempo, nel tempo. Tengo legato, per dei ricordi d’infanzia, il tempo al suono delle campane: sono, a tutt’oggi, il metronomo della giornata per la gente del mio paese. Oltrechè il trascorrere del tempo – le ore, le mezz’ora, i quarti d’ora – dicono anche la qualità del tempo: solenne, luttuoso, tempo ordinario. Hanno un loro ritmo e un timbro: dal numero dei colpi intuisci qualcosa del tempo che è, dal loro suono qualcos’altro ancora. Quando le campane sono mute (c’è anche chi non vuol più sentire suonare le campane), in paese ci s’interroga, allarmati: “Come mai le campane non suonano?” Il sospetto che il tempo sia scaduto è qualcosa che fa perdere il senso del tempo, della vita, degli affari quotidiani. Eppure, a ben pensarci, il tempo è un poco più di nulla. E’ nulla del tutto se non lo si riempie di un qualcosa di significativo: domani, spesso, è il giorno più occupato di tutta la settimana. Per alcuni “oggi” è il domani di ieri, per altri invece “oggi” è la vigilia di domani. Il tempo, comunque, lo san tutti che è un galantuomo: ospita chi fa le cose a caso, e ha posto anche per chi fa caso alle cose. Nel tempo, comunque lo s’intenda – tempo che sono gli anni della nostra vita -, si gioca il tutto della nostra storia.
Nulla accade fuori del tempo, del tempo ordinario.
Il trascorrere delle annate, per anni, aveva la forza d’incutermi tremore: l’incertezza di ciò che non sarebbe più tornato, l’apprensione per gli incontri perduti, l’amarezza di aver perduto tempo. Oggi, che sempre più gli anni si accavallano tra di loro, osservo con un inatteso distacco il bianco che, con calma, colora i primi capelli. Sono debitore ad una signora – una signora di quelle un po’ così, come si dice da noi sorridendo – il sapore del colore bianco: “Mi permetta, padre – mi disse, avvicinandosi a margine di un incontro -. Mi sono accorta che ha un capello bianco: si abbassi un po’ che glielo tolgo!” Ho fatto fronte comune con le mani, lo sguardo per arrestare il suo vigore: “La prego, tenga le mani in tasca signorammia! Ho impiegato decenni prima d’avere un capello bianco: non sia mai che, adesso, arriva lei e me lo strappa!” Non mi impaurisce il tempo che rende bianchi i capelli, che fa diradare la chioma: mi ha sempre intimorito, invece, la possibilità di sprecarlo. Non i capelli bianchi, dunque: ma i giorni gettati via! Il tempo gettato al vento.
“Sono tempi brutti!” è la scusa dei perditempo di ogni tempo. Passo la parola a Péguy: «Faceva cattivo tempo e ci fu anche una tempesta nel lago di Tiberiade, Pietro sosteneva che non avrebbe potuto prender dei pesci. Egli sosteneva che sarebbero morti. Ma Gesù non si tirò affatto indietro. Non dichiarò affatto forfait. Egli non si rifugiò dietro la disgrazia dei tempi». Mi atterrisce, per troppo stupore, che Dio faccia accadere le cose nel tempo: le cose eterne, per un’insindacabile decisione, accadono nelle cose terrene. Oppure non accadranno mai più. Dio, diventando Gesù, ha sposato il tempo promuovendolo ad arena dentro la quale decidersi per il futuro: d’allora, in ogni ora, non c’è istante che non sia caricato a salve, come una pistola. Ogni istante potrà essere quello fatidico, letale, cruciale: «Quanto a quell’ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24,36). Istante salvifico sarà farsi trovare pronti quando verrà sferrato l’ultimo attacco: sarà come preannunciare la vittoria. E’ nel tempo ordinario che il tempo dell’uomo diventa il tempo di Dio. E viceversa: il tempo di Dio diventa il tempo dell’uomo. Il tempo feriale, con nessuna solennità, giorni da minimo sindacale, quello apparentemente insulso, dove sembra non accadere mai nulla. Esattamente per questo tempo, i Vangeli riservano parole inattese, tra le più contemporanee: «In quel tempo». Non importa che sia il tempo migliore o il peggiore: è il solo tempo che abbiamo. La liturgia, ch’è l’ora esatta di Dio, è fatta di trentaquattro settimane di tempo ordinario: le solennità, al confronto, sono un pugno di mosche. In questo tempo – il quel tempo degli evangelisti -, mi gioco tutto, il tutto di me: o la và o la spacca. Non avrò un altro tempo: sarebbe troppo facile averne uno per sbagliare, uno per imparare, un terzo per riprovarci. In uno solo dovrò concentrare tutto.
Ai migliori atleti del mondo basta offrire loro un ring sul quale esibirsi. Loro sanno bene che si fa tardi molto presto.

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