Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Zorba

Ammetto di frequentare Dio e i suoi misteri sin da bambino: eredito dal mio casato l’aver scoperto sguardi-all’insù, oltre a quelli all’ingiù. “Ereditare” è verbo di ricevimento: da altri, verso di me. E’ anche un verbo-impegnato: l’eredità va riconquistata per diventare sangue-nostro. Al contrario, si vivrà da separati sotto il medesimo tetto. Col Padre-nostro, per troppa frequentazione, c’erano svariati conti-in-sospeso. E’ tipico dell’ineffabile: dopo averlo frequentato infinite volte, o lo si ama focosamente o ci si annoia al solo pensiero di doverlo ancora incrociare, professare, cantare. Qualunque sia la forma con la quale s’annuncia: fatti di carne, di insulti, di fede, estasi o caos. Nulla cambia: «Un arcobaleno che dura un quarto d’ora non lo si guarda più» (W. Goethe). Chi, pregando il Padre nostro, non ha mai avvertito nel cuore l’abitudine alla sua recitazione? Recitare è materia d’attrazione, non è ancora pregare: è lasciarsi imbottigliare dentro una trama. Pregare, invece, è lasciarsi-rapire da Dio, per i suoi scopi: «Sia fatta la tua volontà». A occhi chiusi, quasi senza pensarci. A pensarci è da impazzire: volontà-di-Dio è espressione che sotterra. Altro che passività-cristiana: non ciò che l’uomo dovrà fare per Dio. Ciò che Dio vorrà fare per me, suo figlio.
Abituarsi alla bellezza, tra tutte le bestemmie, è la capoclasse. Mi piace assai il verbo “smontare”: è verbo d’officina, di riparazione, di manutenzione. E’ verbo che eredito dal mestiere di papà. Ho provato a smontare il Padre-nostro. Ho scorto parole di una grammatica feriale: “Dov’è tuo papà? Che bel nome porti! Il tizio ha messo in piedi un regno. Ci vuole tanta buona volontà. Sei andato a prendere il pane? Siamo pieni di debiti. Vuoi farmi cadere in tentazione? Perchè mi vuoi così male?”  Ho fatto addizione-di-umano: padre, nome, regno, volontà. Più pane, debiti, tentazione, male. Mi sono scoperto nel Padre-nostro: il festival della ferialità, delle necessità più urgenti, l’essenziale che rimane dopo aver grattato via la parte superflua. Smontandolo, scompariva l’astratto, appariva il concreto: Dio-qui, feriale, festivo. La cui valenza – “Perchè pregarlo?” – era la sola possibile: ridare gusto alla ferialità, risvegliando l’umano della preghiera. L’unica che mi dica di chi sono figlio, di cosa io necessiti, qual’è la mèta del mio vagare: «Non è possibile recitarlo una sola volta, concentrando su ogni parola la pienezza dell’attenzione, senza che un mutamento, forse infinitesimale ma reale, si produca nell’anima» (S. Weil).
Snocciolando il Pater, percepisco la presenza di una mancanza: «Mi manchi, Dio!» Il passaggio a «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1) è breve: le verità più evidenti sono le più ostiche da svelare. E’ il segreto dell’allegrezza di Cristo: la sua arditezza è nascondere il fondamentale nell’apparente banale.
Poi, a domanda, capita che ogni tanto Dio risponda.
In poesia, mai in prosa: «Pater noster (…) Amen».

(…)

Lui è l’Uomo-che-osa. Venne al mondo in uno spazio largo quanto un guscio di noce: «Lo depose in una mangiatoia» (Lc 2,7). Da quell’angolo prospettico odoroso di strame, il punto più in basso dell’intera Betlemme, dichiarò, senza far uso di parola, d’essere il Re dell’universo. Per sangue paterno poteva vantare il lusso di guardare il mondo dall’alto in basso. Decise d’essere sguardo-contrario: a guardare il mondo dall’elicottero tanti erano capaci. Troppe le divinità che, fino ad allora, si erano comportate così: prime-donne viziate per troppe reverenze, col piglio truccato, le parole d’aceto. Scelse, senza esserne obbligato, di non fare il prezioso, pur sapendo d’essere l’Atteso-più-prezioso: «Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio». Figlio-di-Papà, decise di spalancare le porte di casa, senza fare il figlio-di-papà alla maniera di quaggiù: «Ma spogliò se stesso, divenendo simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Che tutti vantassero il lusso di chiamare loro-padre il padre-suo: “Padre nostro che sei di tutti”.
S’immaginavano un altro a Betlemme: il Dio-salvatore mica poteva apparire come uno straccio di mendicante senza acqua nè elettricità. Per troppo orgoglio di chi l’attendeva, lo confusero con uno dei tanti ciarlatani, non gli accreditarono attenzioni minime. Reietto, Lui colse la palla al balzo per mettere a soqquadro il mondo-abitato: alzò i tappeti, staccò la vecchia carta-da-parati, si affrettò nel sottoscala di Betlemme, si mise a frugare tra gli avanzi di ciò che l’uomo aveva scartato. Si scoprì nelle condizioni ideali per colpire di sorpresa l’umanità, per mostrare il volto del Dio a lungo invocato. Piantò tenda-in-mezzo: «Occupa una mangiatoia, e colma di sè il mondo» (F. Sheen).
A Betlemme toccò terra, mise i piedi a terra: perchè più nessuno potesse dire che Dio stava tre-metri sopra il cielo. Che tutti vedessero di che pasta era fatto il Dio-Bambino: pasta che era un impasto di storie, incrocio di sangui, crocevia di arrivi e destinazioni. S’annunciò di notte, perchè convinto del fatto-suo: siccome era la luce, di notte la luce vale-doppio. Vale-oro. Nei pressi di Betlemme erano troppo complicati per afferrare che, giungendo di notte, aveva fatto della notte il suo biglietto da visita: più nessuna notte, dopo quella notte di fraintendimenti e tradimenti, sarebbe stata così oscura da impedire a Dio d’accenderla. Eppoi era annuncio di guerra a Lucifero, ai pippistrelli: siccome nessun pipistrello ama la luce, scelse di sfidarli a casa loro. Di notte, nella notte: per accendere la notte.
Il Dio-Bambino nacque così: sottovoce, in punta di piedi, pancia a terra. Diedero notizia dell’arrivo, a voce bassa, due amanti condotti da Dio sull’orlo di una crisi d’identità: un carpentiere di bottega e la sua giovane donna. Nel breve battito di due “eccomi” ancora oggi misteriosi, misero in piedi la prima famiglia cristiana. Per tutto il resto, date tempo al tempo. Giuseppe vanterà il più alto tra i primati maschili: sarà l’unico a poter dire, senza destare il pur minimo sospetto di esagerare, d’aver avuto Dio come garzone di bottega. Di avergli trasmesso il più complicato dei mestieri-dal-basso, quello di farsi uomo. Maria, così umile da sedersi per terra alle riunioni con le amiche nazarene, vanterà, senza mai farlo pesare, il privilegio di avere come sgabello la luna.
Entrambi, nella stalla-salotto, tengono Dio in braccio.
L’accarezzano, gli danno del tu, lo baciano. Amore artigiano, luce di casa.
Nacque confuso tra la gente-bassa Colui che domani confonderà la gente-alta: «E’ soltanto ad essere piccoli che si giunge a scoprire qualcosa di grande» (F. Sheen). Fuori dalla stalla di Betlemme nessun fiocco ne annuncia la nascita: c’è una stella come segnaletica. Una stella è annuncio di arrivi, presagio di partenze, sensi storditi. E’ una scritta – “Mi manchi tantissimo” – attaccata alla volta del cielo. Troppi, fino a quella notte, avevano spiegato quella mancanza: a Dio non venne in mente altra maniera per dire all’uomo “mi-manchi” che non fosse quella di farsi trovare sottocasa. Faccia-a-faccia, dandosi del tu.
Dare del tu al Figlio. Che, per la proprietà transitiva, è dare del tu al Padre.

«Padre nostro che sei».

E’ rimasto a stazionare sulle labbra del sacerdote, appena dopo l’atto della consacrazione, il più alto indice di follia della storia cristiana. L’invito alla più alta percentuale di rischio mai firmato prima: «Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire». Osare è verbo di coraggio, manovra audace, calcolo dichiarato di rischio. Possibilità consapevole di non-ritorno: “Osò partire con il maltempo”. In quanto ad azione, è suggeritore di possibilità folli: “Tentò l’impossibile, osò il tutto per tutto”.
La storia ammaestra: per avere cose mai avute, occorre fare cose mai fatte. 

«Sì, sull’orlo del baratro ho capito la cosa più importante – miagolò Zorba –
“Ah, sì? E cosa hai capito? – chiese l’umano.
“Che vola solo chi osa farlo” – miagolò Zorba» (L. Sepulveda). 

Che prega solo chi osa farlo.
(Amen)

(da M. Pozza, Il contrario di mio, San Paolo 2018)

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
“Padre,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione”».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. 
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (Luca 11,1-13).

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