Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

mucche

Lo ricordo come uno dei passi che, mentre l’ascoltavo dalla viva-voce della mia nonna, in un battibaleno si tramutava in uno dei passaggi più belli del suo narrarmi di Cristo. Lei la sapeva quasi a memoria la vita di san Giovanni Bosco, compresa l’epopea di mamma Margherita che, abilmente, mi fece imparare a memoria regalandomi, a puntate, la sua storia raccontata a fumetti. C’era una pagina della vita di don Bosco, però, che aveva per lei un qualcosa di speciale. Pareva una di quelle storie che i bambini, dopo averle ascoltate, ti supplicano di ripeterle: “Me la racconti un’altra volta, nonna?” Certe storie nascono per essere raccontate di continuo: sentendole, fanno venire la voglia di avere anche noi una nostra storia. Magari incantevole come quella che mi leggeva: «Nel 1827, a Milano, Alessandro Manzoni pubblicò la prima edizione de I promessi sposi. Nel 1828, a Recanati, Giacomo Leopardi iniziò a comporre i grandi Idilli. Nel 1829 a Parigi Giacomo Rossini mise in scena il suo Guglielmo Tell. In questi tre anni don Bosco strigliò le mucche in una sperduta cascina del Monferrato. Ma cominciò a parlare con Dio”. Quest’ultima frase, poi, la ripeteva quasi chiudendo gli occhi: c’era della mistica nel suo dirmi chi fosse il santo di Valdocco.
Dalle mucche a Dio. Portate pazienza se i santi sono sempre così, gente che calza stivali luridi di letame piuttosto che donne col tacco-dodici: solo chi ha camminato a lungo, dentro il fango, in compagnia del suo popolo riuscirà un giorno a strappare quel popolo dal sudiciume della disfatta. Il Dio di don Bosco, però, non è per questo un Dio mondano: è un Dio che sposa le logiche mondane per elevarle alla dignità delle cose celesti. E’ l’esatto contrario della mondanizzazione: è la divinizzazione del mondo, amici del Dio-Risorto, buoni cristiani e onesti cittadini. Per rendere fascinosa questa scalata alla santità – che, nei secoli, gli varrà l’appellativo di “santo dei giovani” – fece di testa sua, consigliandosi col Cielo: «Mai obbligare i giovani alla frequenza dei sacramenti, ma incoraggiarli e facilitarli nell’approccio a Gesù, facendo notare la bellezza e la santità di quella religione che propone mezzi così semplici per costruire una società civile». Il cristianesimo di don Bosco è tutto qui: la Novella, di cui si fece riflesso, non era una proposta che s’imponeva, nemmeno che si sovrapponeva: rimase sempre una Presenza che si proponeva nel cammino del giovane. Il suo cristianesimo non era un arido sapere, nemmeno un elenco di regole precise da osservare, di precetti ai quali obbedire: rimase sempre una vivacità vitale, una mentalità, un’attrattiva in grado di appassionare i cuori. Di spingerli a Dio.
Al baccano inconcludente della piazza, il santo preferì di gran lunga la pedagogia dell’orecchio, come scrisse don Celia nelle “Memorie biografiche”: «Posata una mano sul capo di un giovane, curvatosi al suo orecchio, gli parlava in segreto, riparandosi con l’altra mano la bocca perché nessuno sentisse. Era una questione di pochi secondi. Ma che effetti!» Le piazze sono sempre più piene, i cuori sono sempre più vuoti, a forte rischio di solitudine, di abbandono: d’altronde, direbbe la vita di don Bosco, non basta nemmeno amarli i giovani, occorre che i giovani si sentano amati. A starci con loro, pare sia proprio un perpetuo giocare-in-perdita. Eppure, a bocce ferme, che cos’è lo stra-citato “metodo preventivo” di don Bosco se non un amorevole mettere i giovani nelle condizioni di non commettere delle mancanze? «No, non con le percosse ma con la mansuetudine e l’amore»: una ricetta così semplice d’apparire quasi fuori-moda, anche fastidiosa perché proprio alla portata di tutti. Partita non dalle corsie-preferenziali di un’università piemontese, ma pascolando le mucche nel Monferrato. Dio nasce vicino: renderlo lontano è la goliardata di Lucifero.

(da Il Mattino di Padova, 31 gennaio 2016)

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