Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Farina e olio: ingredienti base per le ricette della cucina mediterranea, che hanno dato vita a gustose focacce, pane, piadine, secondo tutte le varianti che la fantasia umana ha saputo incanalare nell’arte culinaria.
Farina e olio: sono loro I protagonisti della prima lettura. In tempo di carestia, però, anche questi due ingredienti, basilari in cucina, scarseggiano e condividerli con l’ospite, pur se gradito, implica una certa difficoltà, che, nel caso citato, è radicale: ne va della vita.
Ciononostante, quella che è passata alla storia come “la vedova di Sarepta” non si tira indietro rispetto alla richiesta del profeta Elia, che, dal canto suo, la ricompensa, assicurandole che l’olio non si sarebbe esaurito, né la farina.
Elia è il grande profeta, in conflitto con il re Acab ma, soprattutto, con la regina Gezabele, sua moglie, proveniente dalla Fenicia e missionaria decisa del culto della sua terra, che influenza il popolo e lo spinge ad abbandonare la fede di Israele nell’unico Dio. In un primo momento, il profeta si nasconde presso il torrente Cherit e i corvi gli portano pane e carne; quando poi il torrente si secca per la siccità che si prolunga nel tempo, Elia si dirige verso Sarepta, un paese vicino a Sidone, a 15 km, sulla costa fenicia ed il Signore gli suggerisce di rivolgersi ad una vedova. È in questo contesto che si colloca l’episodio narrato dalla prima lettura, in cui siamo chiamati, non solo a contemplare la Provvidenza che si occupa sia del profeta che della vedova, ma anche invitati a fare altrettanto, sulla scia di una generosità confidente in Dio, che non lascerà nella privazione chi si sarà preso cura .

 

Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono maltrattati, perché anche voi avete un corpo. (Eb 13, 2)

 Con queste parole ed altre simili, citando situazioni tra loro differenti, l’invito dell’apostolo, con una terminologia più moderna, potrebbe essere riassunto con una sola parola: empatia. È a questo che ci invita. Pensate alle varie categorie di persone, che ora soffrono, per un motivo semplice: al posto loro, soffrireste anche voi! È un’incitazione ad andare oltre una concezione puramente “meritocratica” del bene da farsi: non è infatti giustificato il male compiuto dal carcerato, tuttavia è visto come un fratello “da non dimenticare”, di cui prendersi cura, perché solo guardando a lui ed alle sue necessità, si potrà far sì che il Male non abbia l’ultima cuore nel cuore dell’uomo.
È importante però notare di cosa tratti l’epistola, cosa che ci spiega proprio l’introito, in cui parla di “amore fraterno”, un termine che rischia di essere desueto ed invece va rispolverato, per sfuggire a delusioni e fraintendimenti. Al giorno d’oggi, mai parola è più abusata dell’amicizia. Si tratta, ormai, di un enorme calderone in cui facciamo finire dentro, più o meno, tutti gli affetti che non siano l’amore coniugale. Amici sono i compagni di squadra, amici i colleghi di lavoro o i compagni di scuola, amici i catechisti con cui collaboriamo in parrocchia. La realtà è che – complice una generazione di figli unici – rischiamo di perdere il concetto di fratello , che era invece molto chiaro a chi ci aveva preceduto e si era visto costretto, nel bene e nel male, a condividere il proprio spazio e le attenzioni di mamma e papà con – almeno – un’altra persona, quando non altre due o tre. L’amore di cui parla san Paolo è quello fraterno, cioè quello da rivolgere ai fratelli. È quell’affetto che è incondizionato verso una persona che non ho scelto, che non necessariamente mi sta simpatica o mi entusiasma (anzi: può anche starmi cordialmente antipatica!), ma che condivide il mio spazio vitale, per cui si instaura, per forza di cose, quella misura di complicità che è il minimo sindacale per non vivere nel conflitto perenne quanto meno (come avrà modo di dire l’apostolo, altrove: “se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri” – Gal 5, 15). Lo so, questo discorso rischia di lasciare per strada molto del romanticismo che caratterizza l’amicizia, ma aiuta anche a non crearsi aspettative illusorie: infatti, è molto diverso il rapporto con un fratello nella fede, non scelto ma che “trovo” sulla mia strada, nel mio percorso di sequela, piuttosto di un’amicizia nata per affinità elettiva.
Dire diverso però non significa sminuirlo: nella sua gratuità, l’amore fraterno è molto più foriero di santificazione dell’amicizia: «se amate solo quelli che vi amano, che merito ne avrete? Non fanno così anche i pagani?» faceva notare Gesù, proprio nel brano evangelico di domenica scorsa (Lc 6,27-38).

Nel Vangelo che propone stavolta la liturgia, troviamo un’ulteriore sottolineatura, probabilmente dovuta anche alla cocente esperienza della persecuzione, che noi fatichiamo a sentire come nostra, perché – sotto sotto – ci pare una storia del passato, nonostante le statistiche mostrino proprio quello appena trascorso come il secolo in cui i cristiani hanno subito le maggiori persecuzioni, a livello globale (forse, complice anche il fatto, che ora le statistiche ci sono, nei tempi antichi molto meno).

«Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa»(Mt 10, 40-42)

Da una parte, abbiamo un’evidente ripresa della Prima Lettura; dall’altra, però troviamo una sottolineatura che non può passare inosservata: si parla di «piccoli», che, in un certo senso, ingigantiscono la propria considerazione nel discepolato. Chi vuol seguire Cristo, deve farsi “piccolo”, ma, nel suo riconoscersi piccolo, ritrova la propria dimensione e si ascrive perfettamente nella linea di successione dei giusti e dei profeti, perché la sequela che chiede Cristo è – sostanzialmente – imitazione di sé, del proprio stile («mite ed umile di cuore»), del proprio sguardo, capace di creare legami di fraternità che possano trasmettere il valore dell’amore di Dio che, “guardando il cuore” dell’uomo, non fa differenze sulla base di capacità o simpatia, ma ci immerge tutti nel Suo sguardo d’amore che riesce a rimandarci l’immagine più vera di ciascuno di noi, perché “solo l’amore crea” (S. Massimiliano Maria Kolbe).

Come l’olio e la farina: da soli non solo altro che due ingredienti crudi, che riempiono le nostre dispense, ma non nutrono. Impastati nell’amore, anche le asperità del nostro cuore possono piegarsi e noi possiamo aspirare ad assomigliare al Cristo che ci convoca presso di sé.

 

Rif: VI Domenica dopo il Martirio del Precursore, anno C – 1 Re 17, 6-16; Eb13, 1-8; Mt 10, 40-42


Fonti: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove
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