Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

I suoi gesti, nel tempo, erano diventati una sorta di liturgia: lui, Marco, era il sacerdote fondatore di questa liturgia, costruita attorno ad un unico arnese: la bicicletta. Seppure laica, aveva tutti i connotati propri di una liturgia: gesti che, ripetuti nel tempo, diventavano memoria, tempo, litania della meraviglia. Gesti semplicissimi: gli occhiali gettati sulla strada, la bandana regalata al vento, una volta strappò persino il suo brillantino dal naso. Voleva essere libero, leggero di andare incontro alla vittoria: da soli, loro due. Vincere era diventata la sua missione, convincere divenne forse la sua dannazione: «Se puoi vincere, devi farlo» diceva. Il suo modo d’interpretare ciclismo e fatica era una sorta di ascesi. Una ascesi vera e propria: senza religione, ben s’intende, ma pur sempre un’ascesi era. Il distacco dagli avversari era anche un distaccarsi dal mondo, l’esasperazione del dolore come arma di celebrazione della bellezza: «Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia» fu una delle sue frasi cult. Frasi di un pirata tutto pelle e ossa che, uscito dal mare, accarezzava la salita come un surfista accarezza l’onda. Giusto vent’anni fa, il 14 febbraio 2004, moriva Marco, Pantani il Magno. Tanto quanto Alessandro. Il mondo quella sera – sera di san Valentino, serata d’amore – visse il più grande tradimento: morì la poesia, sparì la magia, l’estro, la follia. Marco se ne andò di scatto, fulmineo come ad Oropa, senza diritto di replica come sul Galibier.

Dicono che sia morto. Davvero? E quel suo magnetismo ch’è dappertutto sarebbe il magnetismo tipico di un morto? Chi, dopo di lui, vinse – anche grandi corse: il Giro d’Italia, anche il Tour de France – si sentì dire: “Sì, però Pantani”. In quel “però” c’è tutta la (dis)avventura di una popstar che appiccò fuoco agli animi, divise le tifoserie, anestetizzava le domeniche italiane di maggio e quelle francesi di agosto. In lui coabitavano rabbia e bellezza, genio e sconforto, salvezza e dannazione. Pochi, come lui, hanno saputo fare di uno sport pregno di fatica un pentagramma di batticuori e di emozioni. Si allenava sulle colline di Sarsina, la terra natale del nonno Sotero e di Plauto: accanto al nonno volle essere sepolto in cimitero, al grande commediografo latino rubò il segreto per trasformare il teatro, quello del ciclismo. “Prima di Marco” e “dopo Marco” si è divisa la narrazione a due ruote dell’Italia. Piaccia o non piaccia, con Coppi e Bartali ci sta Pantani: è una sorta di trinità laica del ciclismo italiano. Della nostra epopea nazional-popolare.

E’ morto da solo, come gli eroi tragici di una volta: «Le emozioni più forti le ho provate lungo le strade, quando sentivo la gente che gridava così tanto “Pantani” che mi veniva il mal di testa» confidò in un’intervista. E’ morto come le cerve che, quando sentono di morire, si allontanano verso l’alto per farlo da sole. È morto, Marco: non è mai morto, Marco, nel cuore della sua gente. Di sua madre Tonina che se l’è giurato, che l’ha giurato in tutte le lingue del mondo. A tutto il mondo, anche al mondo che ha ucciso il suo figliolo: “Finchè campo io, sulla vita di Marco non calerà mai il sipario”. Nel frattempo sul ricordo di Marco non è mai calato il sole. Come fosse un pezzo del regno di Luigi XIV, il Re Sole: «Per vincere, Pantani non ha bisogno del doping, ha bisogno delle salite» mise nero su bianco. Ogni volta che si scrive di lui, la penna preme sull’acceleratore: ti rinfacceranno sempre di esagerare. “Ma che ne sapete, voi?” verrebbe da obiettare. Perchè, a parlare di amore, nessuno può dire che si esagera: dipende sempre da quant’è crocifisso, quell’amore, nel cuore di chi è rimasto a sopravvivere. Sopravvivere per provare a raccontare ai posteri, seduti davanti alla tv, che “Sì, è un grande questo corridore. Però Pantani…”.

E’ morto vent’anni fa. Adesso è un privilegiato: non morirà più.
Ammesso che sia morto davvero, in una serata d’amore, vent’anni fa.
Ancora oggi, ogni tanto, lo rivedo: occhiali per terra, bandana sull’asfalto.

La voce rauca di De Zan: “E’ scattato Pantani. E’ scattato Marco Pantani”.
Vengono i brividi solo a trascriverla.

(da Il Sussidiario, 14 febbraio 2024)

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