Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Gesu VR La Storia di Cristo David Hansen Marius Bizau Venezia73

Deserto, locuste, miele selvatico, capelli arruffati, peli di cammello e una certa intolleranza al politically correct. Questi paiono essere gli ingredienti costitutivi dell’ultimo profeta, prima dell’avvento del Cristo di Nazareth.
«Razza di vipere!» è l’epiteto con cui appella i convenuti alle sue “prediche”. Altrove (Mc 6,18), poi, non dimostra alcun timore reverenziale nel condannare il pubblico adulterio del re della Giudea. È l’impudenza dei profeti, che, assorbiti dalla Parola di Dio, “dimenticano” le convenienze e le regole del mondo, assumendo la stoltezza a causa del Vangelo.
Non c’è da stupirsi, quindi, che la sua testa sia rotolata, in quella festa alla corte di Erode, alla presenza della Gerusalemme – bene, complice una danza lasciva e qualche bicchiere. La Verità ha sempre qualche asperità nel suo comunicarsi, un fastidio paragonabile al bruciore del disinfettante sulla ferita aperta: è un dolore che porta al bene della guarigione e privarne la ferita significherebbe non consentirle di essere sanata.
In aggiunta, è bene ricordare un aspetto della mentalità antica, ed ebraica in particolare, che emerge anche in diversi passi del libro di Osea (capitoli 4-5, in particolare): il re e i sacerdoti hanno più colpe del popolo, quando il popolo sbaglia, perché essi rappresentano il popolo e ne rispondono direttamente. Il loro cattivo esempio morale toglie credibilità al loro agire di governo: ecco perché i profeti hanno sempre denunciato con particolare asprezza le contraddizioni dei governanti.

San Carlo Borromeo aveva un motto, che ben sintetizzava il proprio agire pastorale: leone dal pulpito, agnello in confessionale. Non so quanto questi luoghi liturgici siano ancora adibiti al loro ufficio abituale, ma, almeno simbolicamente, il contenuto credo sia chiaro. Nessuna pietà, nel condannare l’errore e nell’esporre la dottrina: cioè, chiarezza, precisione, circostanziazione. Ma, il peccatore che ha riconosciuto il proprio errore e vuole recuperare il proprio rapporto con Dio, deve avere la possibilità di sperimentare la Misericordia di un Dio che dispone il cuore al perdono, prima ancora che l’uomo comprenda di essersi ferito, ferendo. Di essersi sporcato, sporcando. Di essersi annientato, nel tentativo di annientare l’altro. Il cortocircuito avviene quando manca la distinzione tra i due ambiti, sia in un verso, che nell’altro. Nel primo caso, il rischio in cui si incorre è sguazzare nei propri errori, per autentica e genuina ignoranza. Nel secondo, il rischio – non di inferiore gravità –  è quello di rifuggire non da Dio, bensì, come ebbe modo di coniare Giovanni Paolo I, «dall’idea sbagliata che abbiamo di Lui»*.
Mi è inevitabile richiamare, in questo momento, alla memoria, il Sommo Poeta:

«Coscïenza fusca/ o de la propria o de l’altrui vergogna/pur sentirà la tua parola brusca. //                         
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,/ tutta tua visïon fa manifesta;/ e lascia pur grattar/ dov’è la rogna.// Ché se la voce tua sarà molesta/ nel primo gusto, vital nodrimento/ lascerà poi, quando sarà digesta. // Questo tuo grido farà come vento,/ che le più alte cime più percuote;/ e ciò non fa d’onor poco argomento»
(Pd. XVII, 124 -135)

Inutile dire che il parlar chiaro, a cui cercò di convincersi tramite le parole di Virgilio, non gli diede un’esistenza esattamente serena in vita. In compenso, però, ancor oggi, rimane il poeta più noto dell’italico suolo. Riprova che l’ultima parola non va mai detta prima del fischio finale dell’arbitro.
Del resto, nonostante l’asprezza delle parole del Battista, che apostrofava malamente i convenuti, «da Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui» (Mt 3,5). Perché accorrevano a lui, se poi erano trattati male?  
Perché le sue parole sapevano di libertà. Quella libertà che è, al contempo, aspra e desiderabile. Impegnativa, perché la libertà impegna sempre tutto il nostro essere e, spesso, lo mette in difficoltà. Ma anche desiderabile: perché noi siamo fatti per lei e la nostra anima respira aria buona quando ne sente il profumo e si avvicina, avida e piena di aspettativa, a chiunque sia in grado di fartelo apprezzare.
Perché parlava di un Regno di Dio, possibile, attuabile. Vicino. Non una bella idea. Qualcosa di più. Forse, per la prima volta, la concretezza si faceva strada, perché era «vicino» (Mc 3,1): ecco perché è necessario cambiare rotta (convertirsi). La conversione non è altro che la reale adesione al Regno di Dio, che è il progetto di Dio sull’uomo, abbandonando le nostre riserve e l’inseguimento dei nostri individuali progetti, che, talvolta, diventano l’idolo a cui preferiamo sacrificare la Volontà di Dio.


*«Io sono stato molto vicino, come vescovo, anche a quelli che non credono in Dio. Mi son fatto l’idea che essi combattono, spesso, non Dio, ma l’idea sbagliata che essi hanno di Dio» (Giovanni Paolo I, Udienza Generale, 6 settembre 1978)

(Rif. Vangelo festivo ambrosiano, II domenica di Avvento, Anno B)

Fonte immagine: Parole a colori

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