Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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« Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10, 27): si tratta di una sorta di “bigino” che il dottore della legge propone a Cristo, dopo che questi, interrogato, gli fa una sorta di specchio riflesso, invitandolo a rispondere alla propria domanda.

Se ci pensiamo, in effetti, può essere considerata buona sintesi dei dettami biblici. Cuore, anima, forza e mente: tutte le dimensioni dell’umano sono coinvolte. Poi, quell’aggettivo (“tutto”), che non lascia spazio ed invita ad abbracciare una totalità che è indice di una radicalità, che affonda le proprie motivazioni in un sentimento, l’amore che, se non è anche una decisione libera della volontà, rischia di essere solo una scelta arbitraria ed aleatoria, che dura quanto dura la voglia, ma niente di più. Tutto per Dio. Ma allora: cosa resta per gli altri, se ho già dato tutto per Dio?

In realtà, l’amore è tutto in Dio, per gli altri. Infatti, come evidenzia Giovanni, nella sua lettera: «Chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4, 19). I due aspetti sono imprescindibili, ma non è la quantità ad essere a rischio d’estinzione: se noi attingiamo alla fonte (Dio), in Dio possiamo amare ogni uomo, proprio in quanto sua creatura. E, sulla base di questo, potremo imparare ad accogliere anche quelle imperfezioni che ci danno fastidio, quelle idiosincrasie che ci fanno venire il nervoso: insomma, tutte quelle peculiarità, squisitamente umane, che rendono ciascuno di noi una creatura unica ed inconfondibile. Nel bene e nel male. Per questo: la prima creatura su cui riversare amore siamo noi stessi. Per qualcuno, è spontaneo. Altri, in parte per esperienze negative di svalutazione del sé che hanno subito, può essere più macchinoso. Nessuno, però, può sfuggire a questo sistema. L’amore cristiano è uno sgabello a tre gambe e, quando una di queste è troppo corta, la seduta è sempre scomoda (qualunque sia quella “zoppa”). Come è vero che nessuno può dire di amare Dio, se non ama il fratello, non possiamo neppure amare gli altri, se siamo incapaci di usare misericordia verso la creatura che incontriamo quotidianamente ogni mattina alzandoci dal letto: noi stessi.

«La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge, infatti, è la carità» taglia corto san Paolo, nella lettera ai Romani (13, 10). Come nasce, però, questo amore, che riempie e dà senso alla Legge?

Lo possiamo verificare nella Prima Lettura. Dall’ascolto. «Ascolta, o Israele» (Dt 6,3). Un ascolto che diventa, assieme, invito alla memoria e afflato di tenerezza che si affaccia sul presente. Perché non c’è memoria, senza futuro e non c’è presente senza ricordo di un passato che, anche quando significa dolore, non manca di riportare alla memoria i benefici dell’amore.

«Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6, 6-9)

La memoria non richiede solo tempo e fatica. Implora fisicità e pazienza. Caratteristiche alla base di ogni rito, religioso o profano che sia. C’è bisogno di scrivere; come per la nota della spesa, senza la quale è matematico tornare a casa avendo dimenticato, immancabilmente, il prodotto più importante e necessario (in genere quello determinante a stabilire la tempistica dell’uscita). È necessario avere un segno, davanti agli occhi; è qualcosa che indirizza il tuo sguardo verso ciò che conta davvero: non sui fallimenti, le fatiche, le incongruenze, bensì, su quella condizione, stabile, permanente, ineludibile di figlio amato («Tu sei prezioso ai miei occhi» – Is 43, 4). È un legame, da toccare, da stringere, come la corda del Rosario: nei momenti più bui per non sentirsi soli, nei momenti più gioiosi, per esprimere a pieni polmoni quella gratitudine per il dono inestimabile della vita, che rimane una storia affascinante e tutta da scoprire, al netto delle difficoltà che ciascuno di noi è chiamato ad affrontare.

Nell’ascolto docile alla Parola di Dio, nella memoria della nostra personale alleanza con Dio, il nostro sguardo potrà comprendere chi è quel prossimo di cui dobbiamo vivere la vicinanza. Magari, è proprio accanto a noi e non ce ne siamo accorti. A volte, ci è chiesto anche meno che al samaritano. La consapevolezza di essere presenti a chi ci sta intorno, per cogliere nel silenzio che abita le parole quel bisogno di sentirsi guardati come ci guarda Dio. Anche solo per un istante.


Rif. Letture festive ambrosiane, nella V domenica dopo il Martirio del Precursore, anno B: Dt 6, 1-9; Rm 13, 8-14; Lc 10, 25-37

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