L’avevo visto, quando ero in libertà, dentro qualche chiesa. Con il passamontagna, più di qualche volta sognavo di rubarlo: quando lo studiavo, con i gioielli attorno, stimavo al volo possibili acquirenti e guadagno. Non sapevo, però, come si chiamasse quell’oggetto. Una volta arrivato in carcere, l’ho chiesto al prete, disegnandoglielo per fargli capire di cosa parlavo: “Si chiama ostensorio – dice -. Dentro, certi giorni, si mette l’Ostia per fare l’adorazione dell’eucaristia”. La fortuna, quando ti considerano scemo, è che non sei tenuto a giustificarti: “Tanto è scemo!” dice la gente. Così, un giorno, costruisco un ostensorio (adesso so che si chiama così) con il cartone di una cassa della frutta recuperata da un lavorante della cucina. In galera io vivo doppiamente carcerato: isolato da chi è fuori, isolato anche da chi è dentro, a motivo di scelte fatte che mettono in pericolo la mia incolumità. Ragione per cui non posso andare in chiesa, frequentare le catechesi, incontrare gli altri. L’unica possibilità, per me, è sperare che il prete venga in cella a domicilio: aspettare il prete del nostro carcere, poi, è come aspettare una nave dentro un aeroporto. Un giorno, quando non me lo aspetto, lui arriva all’improvviso: è il Mercoledì delle Ceneri. “Ho visto la tua domandina: eccomi qui” mi dice con la sua faccia tosta. La domandina, per la cronaca, l’avevo fatta tredici mesi fa. “Meglio tardi che mai – gli dico -: la chiesa arriva sempre in ritardo”. Lui Incassa e tace: è intelligente.
Non riesco a cacciarlo via: gli uso pietà. Lui mostra d’apprezzarla e scopro che è venuto per fare una piccola celebrazione in cella, una celebrazione a domicilio. Fa su di me il gesto di mettere della cenere: «Convertiti e credi al Vangelo». Poi prende in mano il mio ostensorio di cartone: vedo che è curioso. Gli spiego perchè mi piace, come l’ho fatto: “Sei un artista – dice – è che manca la parte più importante”. Parla dei gioielli? Lo vedo pensieroso, vedo che abbassa lo sguardo, poi mi guarda come chi sta pensando se fare una cosa o meno. “Che fai tutto il giorno?” mi chiede. “Guardo fuori e aspetto che venga sera” gli rispondo educatamente. Vorrei dirgli: “Alla faccia della rieducazione: è già un lavoro a tempo pieno restare vivi qui!” Qui c’è un caos da stadio ventiquattro ore al giorno: il cervello pulsa come in nessun altro posto. La rabbia ti impedisce persino di pensare. A guardare i tuoi dirimpettai dalla cella, ti rendi conto di essere circondato da gente che ruberebbe gli assorbenti alla madre per una dose di cocaina. Vivere è sopravvivere. Il prete: “Ti do un lavoro da fare: ho tanti pensieri pesanti in testa”. Provo tenerezza per quest’uomo sepolto vivo dentro i casini. Gli chiedo: “Posso aiutarti?” Estrae un piccolo contenitore circolare dalla tasca, tira fuori un’ostia e la mette nel mio ostensorio: “In questa quaresima fagli compagnia. Aiutami a pregarlo, che ci illumini la strada”. Esce, scoppio a piangere guardando l’ostensorio con l’Ostia dentro.
Io, da libero, ne ho combinate più di Bertoldo: la mia condanna è anche leggera se penso alla foresta di ergastoli che cresce di giorno di giorno in giorno qui. Ho trascorso la quaresima con l’Ostia nell’ostensorio di cartone, appoggiata sulla credenza (di cartone) della cella. Certe sere, quando provavo a pregare, avrei voluto iniziare scusandomi come Re Carlo ha fatto alla Camera: «Spero di non stare rovinando la lingua di Dante così tanto da non essere più invitato in Italia». Non mi era mai capitato di trovarmi così a tu per tu con Dio: avevo paura di non pregare correttamente e non avere più Cristo ospite. Il sabato prima delle Palme, il prete ritorna. Chiedo di confessarmi. Finita la confessione, apre l’ostensorio di cartone: “Il Corpo di Cristo” mi dice. In questa Settimana Santa, prima di addormentarmi, guardavo quel cartone senza più l’Ostia dentro. Invece che rattristarmi, ho usato la logica: non era più nel cartone perchè era dentro di me. Del Vangelo di Pasqua ricordo l’immagine di un sepolcro vuoto: «Non è qui, è risorto», o qualcosa del genere. L’ostensorio vuoto è il mio promemoria: “Puoi risorgere anche tu”. Non ho ancora capito se sono Giuda che lo tradisce o Giuseppe d’Arimatea che lo ama di nascosto. A prescindere, in questa quaresima mi sembra di aver fatto le prove generali di come si faccia a risorgere.
* Giorgio, detenuto presso la Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova
(da Il Sussidiario, 20 aprile 2025)