Padova, al tramonto, s’è fatta pellegrina attorno al carcere. Nelle trame di una città, il carcere è un quartiere sommerso: somiglia più ad una discarica che ad un giardino. Raramente, quando si passa davanti, si provano sentimenti di umanità: la sola idea di ciò che la gente dentro può avere commesso, cancella il ricordo che gli uomini sono uomini dappertutto: «Condannare è un verbo che mi è diventato familiare – scrive un uomo detenuto -: sono anni che, per scontare la mia condanna, abito in galera. Mi chiedessero che lavoro faccio qui, ad esser sincero dovrei dire che lotto tutti i giorni col mostro che il male mi ha lasciato». “L’inferno del carcere” si legge spesso nei notiziari. Fosse davvero inferno, non ci sarebbe possibilità di redenzione: dall’inferno non si puo ritornare indietro. Più che all’inferno, il carcere somiglia al purgatorio: qui si cerca di strappare via le anime alla dannazione, prendendole per mano, dando loro voce, attraversando assieme il dolore: «La mia storia – continua – non è granchè: è una storia da “prognosi riservata”. A volerla sciogliere, non basta volerlo: è necessario il dono di fare qualche incontro che ti aiuti a leggerti dentro. Anche Cristo, se mi ricordo bene, mentre saliva il Calvario ha accettato l’aiuto di qualche persona buona: mi ricordo il Cireneo». È un paese variopinto il carcere: c’è chi si affaccia alla cella per sbadigliare, chi si stira, chi si gratta la pancia. Chi si libera dando pugni in bocca al compagno di cella. C’è anche chi, espiando, cerca di salvarsi l’anima.
Non c’è luogo del Vangelo che più definisca chi siamo del Monte Calvario. Il Calvario delle vittime, il Calvario dei carnefici, il Calvario delle Veroniche e dei Cirenei. Dei soldati e della plebaglia. In galera, grazia e disgrazia si radunano come uno sciame d’api all’ora del tramonto e ognuno vive la sua personalissima ora d’aria con la propria coscienza: «Quando penso alla condanna a morte di Gesù, penso alla mia condanna, che è tre volte condanna: ho condannato me alla mia colpa, ho condannato le vittime delle mie malefatte, ho condannato il presente e il futuro della mia famiglia. Non è facile da accettare, ma il sorriso del diavolo – come lo chiamava la mia buona madre che adesso non c’è più – ha lasciato segni indelebili in me». Chi oltrepassa la soglia della galera, più che il male noioso a stupirlo è il bene inaspettato che riparte sulle ceneri del male. Continua l’uomo col passaporto di ferro e cemento: «Qualcuno dice che ci vuole meno sforzo a condannare che a pensare: per ciò che mi riguarda, ripensare al male fatto è l’unico modo che ho per cercare di diventare quell’uomo che non sono ancora riuscito a diventare». Per grazia, avvicinandoli, nei loro occhi viene offerta l’occasione di incontrare i bambini che sono stati: lo sono ancora, anche se gli atti compiuti li hanno mutati in qualcosa di orrendo, inavvicinabile. Il male incuriosisce: basta vedere che fascino esercitano le cattive notizie sui “buoni”.
Celebrare qui attorno la Via Crucis è un atto di fede, di speranza e di carità. Le tre virtù teologali, nella geografia del male, creano sommosse, alzano il tiro, vanno fiere d’essere chiamate in causa: «Quello che una volta pensavo fosse un problema da risolvere – è l’uomo galeotto – era semplicemente la vita e quello che ritenevo la soluzione di ogni problema era invece solo la lusinga che, alla fine, mi ha inchiodato a questa croce». In galera, giornalmente, i Cirenei e le Veroniche intonano inni di speranza a Caino: «Il diritto dell’uomo al suicidio è inviolabile ma a volte un amico può renderlo non necessario» (J. Steinbeck). Chiude l’uomo condannato: «Non cerco giustificazioni. Chiedo solo al buon Dio di conservare qualche sorriso ai miei figli che crescono con un padre che non ha voluto crescere e guarda dalla finestra della cella il mondo scorrergli davanti, come i papaveri a bordi strada guardano le vite degli altri passare». Parole che, certi giorni, sono in grado di sovvertire il corso già segnato di vite abbandonate.
E la Via Crucis di Cristo corre il rischio di diventare la Via Lucis di Caino.
(da Il Sussidiario, 10 aprile 2025)




Una risposta
In tutto questo c’è SPERANZA..
Grazie per tenerci uniti anche via social.. un abbraccio a tutti voi.