ClaudioCipollaVescovo

Può una terra bagnata di delitti qual è il carcere diventare una terra-santa alla quale recarsi come pellegrini in cerca della Grazia? «Nessuna perla si scioglie nel fango» scriveva Victor Hugo ne “I Miserabili”: nessun uomo sarà mai perduto se qualcuno gli siederà accanto per testimoniargli la variabile di Dio. Quella che, calcolata, rimette mano a strade rese impraticabili dalla menzogna, può fare di pietre scartate delle pietre angolari: pietre che sostengono gli architravi di Dio. «In carcere ho visto come lo scarto possa diventare una risorsa, come certe condizioni apparentemente inutili in quel luogo divengano una ricchezza» ha detto il vescovo Claudio annunciando la sua scelta di rendere la chiesa del carcere “Due Palazzi” una delle quattro chiese giubilari in vista del prossimo Giubileo: una chiesa che è stata prescelta come “valida” ai fini dell’assoluzione dei peccati per i pellegrini che in essa si recheranno nell’anno santo. Il peccato come incrocio di salvezza: il paradosso dei Vangeli.
Il carcere, dunque, come meta di pellegrinaggio: non solo luogo nel quale espiare la pena da parte di chi è condannato, ma anche luogo in cui andare pellegrini a toccare con mano la carne di Cristo. Umanamente è un’assurdità: il carcere lo si evita, lo si denigra, lo si offende. Per tutto un anno, invece, diverrà occasione di santificazione, luogo in cui la Grazia dispensa la misericordia, una terra nella quale andare a vedere la ragione che mise sottosopra Paolo, ex-ghigliottinaio a libro paga della legge: «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20). Lungi dall’essere una mancanza di rispetto per chi soffre a causa di responsabilità altrui, questa è una scelta di campo: è un invito a sfidare le cose illogiche degli uomini per addentrarsi dentro le cose logiche di Dio. E’ uno stare dalla parte dell’uomo, anche dell’uomo peggiore se proprio volete: è ricordarci che prima di ogni altro pensiero – monasteri, cattedrali, oratori e dicasteri – Dio ha pensato l’uomo. Che, anche quando offusca la sua bellezza, rimane il suo pensiero più gradito. Ecco, dunque, dove la sfida s’affina e, forse, infastidisce: che la cappella del carcere venga scelta come chiesa-giubilare non aggiunge nulla a chi, nella ferialità, già sperimenta le scorribande e le imboscate della Grazia. Servirà a coloro che, apparentemente liberi come chi scrive, si vedranno costretti ad allargare gli orizzonti, ad aprirsi all’imprevedibilità della Grazia, ad usare un pizzico di misericordia in più per le persone che sbagliano.
Un’aggiunta di misericordia in più anche verso se stessi.
Il Vangelo è un maestro che fa delle preferenze e che, smascherato, non prova vergogna a dare un nome ai suoi preferiti: da sempre sono rimasti i poveri, anche i poveri più dissacranti e dissoluti come possono apparire i carcerati. Per loro riserva cenni d’incomprensibile tenerezza, a loro addita quando vuol spiegare che oltre la legge può arrivare l’amore, a loro ammicca quando vuol mostrare che i suoi pensieri sono lungi da quelli umani. «Ogni volta che passeranno la porta della loro cella, rivolgendo la parola al Padre, possa questo gesto significare il passaggio della Porta Santa» scrive Francesco nella bolla di indizione per il Giubileo della Misericordia. Sono parole in agguato, sono immagini da tregenda, hanno l’eco di cose impossibili solo a pensarsi. Eppure sarà così: Dio si lascerà vedere solo attraverso le ferite, quelle ricevute e quelle date. Un Dio imbarazzante.
La notizia ha colto la mia piccola comunità cristiana di sorpresa: sorpresi i detenuti dalla predilezione di Dio per loro, sorpresi i miei volontari che, all’annuncio, se ne stavano con le “mani in pasta” come da quattro anni a questa parte. Come fosse la cosa più normale di questa terra andare a curare le ferite più inguardabili, portare Dio nella terra di Lucifero. Tutti convinti che, alla fine di tutto, a dire grazie saranno coloro che, pellegrini da queste parti, rincaseranno accarezzati dalla misericordia di Dio. Con qualche certezza in meno, con qualche dubbio in più: le domande sono, da sempre, il segno di punteggiatura più ricco. Anche se lasciano sempre in apnea, quasi frastornati dal loro silenzio.

(da Il Mattino di Padova, 8 novembre 2015)

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