L’educazione-civica era una delle materie che più mi incuriosivano quando frequentavo il liceo classico. Era la materia che nell’immaginazione associavo al galateo: come quest’ultimo insegna la giusta maniera di pulirsi la bocca usando il tovagliolo, così l’educazione civica aveva l’arduo compito d’ammaestrare sulla giusta modalità di stare al mondo, d’essere cittadini. Una sorta di stile civico per una cittadinanza più consapevole, una responsabilità più civile. Poi – è usanza con le cose che valgono – quella materia venne decapitata nel curriculum dello studente: “Tempo perso, troppo inconcludente, un sapere astratto, tanta teoria e poca pratica”. Nessun-boia è mai tenuto a giustificare le decapitazioni: ciò che resta è il sospetto che, visto che l’hanno tolta, fosse una materia valida. Una di quelle cattedre nelle quali che pensi di meritare perchè hai saputo rispondere alla domanda: “Come si fa a fare scuola?” Per poi scoprire a tue spese che, per non fallire, la domanda era un’altra: “Come essere per poter fare scuola?”
Il carcere è il quartiere più sfilacciato in una città. Fosse un treno, la gente che viaggia avrebbe il volto confuso di chi, se solo gli credessimo, coltiva il più grande sogno tra quelli umani: imparare a mettere a fuoco la sua vita, giacchè «nessuno si salva da solo» (M. Mazzantini). Da queste parti, sotto una colata di ferro e cemento, il verbo “salvarsi” ama viaggiare mano-nella-mano con il verbo “cambiare”: nessuno si salva da solo, “nessuno cambia da solo”. Quest’ultimo è stato il titolo di uno splendido convegno organizzato venerdì scorso dalla rivista “Ristretti Orizzonti” nel carcere di Padova. Per un’intera giornata, la gattabuia disastrosa della galera ha ospitato una lezione di educazione-civica d’altissima quotazione. Ci vuole fegato per viaggiare contro-vento, ma certi luoghi sono nati apposta per dare-ospitalità esattamente a tutto ciò che il mondo rifiuta perchè giudicato inutile, anche inconcludente, tempo-sprecato: l’uomo errante (“Uno così non ci serve più. Tenetevelo voi”), le materie che fanno perdere tempo (“Questi discorsi appesantiscono la mattinata”), intere librerie i cui libri destano problemi di giacenza (“Devo svuotare casa. Posso mandarvi un camioncino di libri?”). E’ per questo, badate bene, che in una città esiste il carcere: quando le discariche sono piene, il macero chiuso-per-ferie, il planning scolastico riempito, tutto ciò che rimane fuori va impacchettato e mandato in carcere. Che, da parte sua, ringrazia e ricicla: nulla si crea qui dentro, ma nemmeno nulla si distrugge. La sfida resta quella di trasformare tutto ciò che arriva, convinti che nel fondo delle cose giace «la freschezza più cara» (G. Hopkins), quella forma di bellezza che non svanisce con il suo tramontare. Dare forma all’incompiuto è bellezza.
Una giornata di educazione-civica dentro un carcere è un ossimoro duro da digerire: “Cos’avrà da insegnare quella gente?” Probabilmente nulla di più di quello che già tutti sanno: che la malavita è una vita-mala, andata in malora. C’è bisogno di un’occasione per poterlo dire-bene: comprendere il male senza mai giustificarlo è educazione-civica, materia di civiltà, roba da cittadini. E’ dato incontrovertibile che si viva meglio quando non si sa cosa accade attorno a noi: resta da dimostrare la possibilità di diventare cittadini-completi facendo calare le serrande su alcuni quartieri del nostro vivere. “Nessuno cambia da solo”, allora: neanche una città potrà cambiar volto da sola. Non riuscirà a produrre futuro se s’ostina ad usare grammatiche di segregazione: «Da bestie si può diventare uomini, da uomini si può diventare santi. Ma da bestie a santi d’un passo solo non si può diventare» (don L. Milani). Era per questo che, una volta, esisteva la nobile materia dell’educazione-civica. Scomparsa, ciò che resta è pensare che ad essere educato debba essere l’altro. Neanch’io, però, cambio da solo.
(da Il Mattino di Padova, 21 maggio 2017)
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