Non l’infrangibilità ma il suo opposto, l’essere frangibile, è la caratteristica tipica di chi appartiene a Cristo. Di chi ha la cittadinanza nel suo gregge. Non un’umanità al limite delle possibilità d’apparir quasi disumana, ma la capacità di ascoltare e incamminarsi dietro a ciò che Cristo, vestito da pastore, propone al suo gregge: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono». La cosa che consola è che tra l’ascoltare e il seguire c’è tutto il resto, «e tutto il resto è giorno dopo giorno / e giorno dopo giorno è silenziosamente costruire / e costruire è sapere /e potere rinunciare alla perfezione» (N. Fabbi). Proprio tutto il resto: il cadere, il rialzarsi, il fare cilecca, l’andare a rotoloni, il crollare, lo schiantarsi. Il frantumarsi. Il male, però, alla fine non vincerà: c’è il segreto, segreto di pastorizia, quel «nessuno potrà rapirle dalla mano del Padre mio». Anche qualora il male prendesse in mano il megafono, desse fondo alla sua arroganza, esibisse i suoi muscoli artificiali, la pecorella saprebbe che non sarà l’ultima parola. A tessere la fiducia nel cuore della pecora, a tenere in vita il filo d’Arianna tra lei e il pastore è quel senso d’appartenenza che, giunti a sera dentro il recinto, permetterà di dirsi “A domani” con quel sottile filo d’appartenenza che rimarrà una delle percezioni più incomprensibili che si possano provare in vita. Il pastore alla pecora: “Sei mia”, la pecora a lui “Sono tua”, laddove l’essere l’uno dell’altro non è indice di possesso ma dichiarazione d’appartenenza.

I Giudei, quel giorno – era d’inverno, cielo uggioso, aria di nevischio sulla santa Gerusalemme – sentirono i nervi ch’erano sul punto di saltare: «Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente» (Gv 10,24). Tutto nasce e rinasce sempre dall’attesa: senza l’attesa, potrebbe anche capitare che Dio ci passi accanto, davanti, di fronte senza che ce ne accorgiamo. Eppure la sola attesa non basta: dev’esserci un fatto che la segue, portandosi via anche il solo dubbio d’essere stata vana. Gesù, più delle sue opere, non saprebbe cosa offrire come risposta all’attesa: «Ve l’ho detto, non credete: le opere che compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me». Se c’è una cosa che Cristo ama ancora più della libertà, fino a farla diventare la sua caratteristica principale, è il senso di appartenenza. Appartenere a qualcuno che ti fa sentire libero senza per forza abbandonarti al tuo destino: questo è il vero miracolo. La gente che nei viottoli dei Vangeli acciuffa al volo, come un pescatore il pesce, la solidità del messaggio di Gesù non è gente che crede solo nell’indissolubilità di certi legami, ma in cose ancora più semplici e basilari: come nel ridere assieme a battute che altri non colgono. Vivere appartenendosi, infischiandosene di quel che la gente va insinuando. La pecora, in certi frangenti, si sentirà sola, le mancherà il pastore, avrà nostalgia di quel bastone a marcare la traiettoria: in questo caso, il mancarsi, se è reciproco, con Cristo è già un’appartenenza dichiarata.

Avviso per i rapaci: «Nessuno può strapparle dalle mani del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola» (cfr Gv 10,27-30). Amico dei pescatori, Cristo ha discendenza di pastori: “Essere rifugio uno nell’altra. Questo è appartenenza” si tramandano tra loro, tramandandosi il mestiere. E “appartenere” è del cuore: «Appartenere a qualcuno significa entrare con la propria idea nell’idea di lui o di lei e farne un sospiro di felicità» (A. Merini. Qualunque sia la domanda, comunque, non sarà la disperazione la risposta, fa intuire Cristo ragionando su armenti e pastori. È soltanto quando apparteniamo veramente a qualcuno che, pur aggrovigliati, sapremo distinguere ciò che è affidabile da ciò che non lo è. Il genio di Cristo, nel frattempo, resta all’altezza: non spegne le domande – «Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso?» ma risponde lasciandoci l’arte del discernere. Tanto il finale è già scritto: “Il male non prevarrà” (Leone XIV). Visto che un esercito di pecore condotte da un leone vincerà un esercito di leoni pilotato da una pecora.

(da Il Sussidiario, 10 maggio 2025)

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola» (Vangelo di Giovanni 10, 27-30).

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