Non so per quale motivo, ma povere pecore! Elette a simbolo dell’imperitura incapacità di ragionare, di individuare la méta, di tessere strade ardite, sconosciute, di fantasia: “Sei come una pecora”, “Siete un gregge di pecoroni”. Pecore sottovalutate nelle navate delle chiese. Intendiamoci bene: non si chiede di trasformare in ovile il presbiterio, il tabernacolo in mangiatoia, i banchi austeri e millenari in imballaggio per la paglia. Si chiede solo di dare a ciascuno il suo. Allora come mai oggi tutti dicono che è la “domenica del buon Pastore” e non la “domenica delle pecore”? Non si tradirebbe di certo il respiro del Vangelo che, oggi come non mai, parla dell’Ovile con la stessa delicata architettura di cui parla del Tempio. E nell’ovile ci sta l’uomo, il Pastore per eccellenza: realtà sacra al viso di Dio. Ovile come Tempio: altro che dormitorio e deposito di pecore. E’ zona d’incontro, di riconoscimento, di ritorni graditi.
In un giorno di nuvole e di nebbia il pastore, va in cerca delle pecore disperse, come racconta il profeta Ezechiele, perché al tramontar del sole non devono mancare la sbandate che sono andate dietro il loro naso perdendosi in giro (Liturgia della IV^ domenica di Pasqua). Il pastore le conta e le riconta, segue la via, va con le stagioni. Il pastore sa che deve lottare contro ogni aggressore per salvaguardare la propria proprietà, per garantirsi latte, formaggio e lana. Un Gesù esperto in pastorizia perché sa bene che pastore non è chi manda al pascolo, ma chi esce davanti ad esso e lo fa venire dove lui va. Sa scegliere le direzioni, procede sulla terra secondo le istruzioni del cielo. «Nel cammino della vita fai come il marinaio: con la mano tiene il timone, ma con l’occhio fissa le stelle» (G. M. Conforti). Il pastore marcia con gli occhi al cielo e così stringe il nodo provvisorio tra la terra e l’infinito spazio in cui s’aggira. Il pastore non bada alle faccende altrui, scavalca i confini e le linee immaginarie inventate dai popoli per il loro possesso.
“Il nostro gregge nel giro di dieci giorni si riempì con mio grande piacere di agnelli. Allora la mattina mi svegliavo presto insieme al babbo per rivedere quelli che già conoscevo o che eventualmente erano nati durante la notte. In questo periodo lui si alzava due o tre volte per notte per assistere i neonati e per farli poppare. Spesso il freddo impediva loro di suggere le poppe della mamma e potevano smammolarsi e morire. Allora lui li portava dentro la capanna, li riscaldava e quando davano segni di vitalità li imboccava. Apriva loro la bocca e vi spremeva il capezzolo della loro mamma o di altra pecora se questa malauguratamente non portava latte. Operazioni che lui faceva con molta cura”.
(G. Ledda, Padre padrone)
Sentilo: «Tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati». Assoluto, esigente, di un’arditezza quasi blasfema e irriverente questo Gesù. D’altronde era un uomo libero, di una libertà totale. Scendeva nelle strade, nelle piazze, nelle sinagoghe, nel Tempio, nelle case private, incrociava sguardi di prostitute e di briganti, di benestanti e di folli. Non sapeva cosa fossero i complessi. Per questo metteva alle strette, sbaragliava tutto e andava al sodo, se ne infischiava dei formalismi e delle convenzioni sociali. Non guardava in faccia a nessuno, ma parlava con autorità, mosso da estrema libertà. «Le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce». In ogni occasione la voce del pastore garantisce ad ogni pecora del gregge la via per superare la prova. Rapporto di casta intimità («Entra per la porta»), sguardi intrecciati al singolare («Una ad una»), messaggi personalizzati («Le chiama per nome»), liriche scritte a quattro mani. Quella voce avrebbe accompagnato il popolo come una colonna di fumo che tratteggia la via, come un mare che si apre alla salvezza, come un tempio che custodisce preghiere.
Da pastore a pescatore per incontrarsi nell’incrocio delle solitudini. Nato pescatore, probabilmente Pietro non era tanto diverso da me, forse nemmeno da te. Impulsivo, testardo, apparentemente sicuro di sé, pieno di amore a parole per Gesù, ma sotto sotto un insicuro, con la paura di essere sommerso dalle onde e pronto a tradire se la testimonianza gli costava troppo. Oggi, però, quando s’alza in piedi per urlare il suo credo, fatichi a riconoscerlo perché non è più l’uomo timoroso e vigliacco che deve piangere lacrime di vergogna e di tradimento. Sconfitto e conquistato dalla follia di Gesù di Nazareth adesso offre parole forti, infuocate, capace di trafiggere i cuori, di convertire a Gesù Crocifisso. Non promette facili illusioni: «Pentitevi e fatevi battezzare, salvatevi da questa generazione perversa» (At 2,36-41). Il pescatore di Galilea, traditore – innamorato, è diventato l’anima di quel gruppo di esaltati che avrebbero raccontato di morti resuscitati, di eterni paradisi e di folli dichiarazioni d’amore musicate da Dio. E noi al cospetto di tale sublimità abbiamo smarrito il senso dello stupore, l’ebbrezza della commozione, il sapore della meraviglia, mentre sappiamo di una folla che si sentiva «trafiggere il cuore» ascoltando le parole di Pietro (At 2,37). A noi quella Buona Notizia non dice più nulla, e dei Vangeli pensiamo di sapere già tutto prima ancora di averli ascoltati, invece di cercare umilmente quella verità profonda e nascosta che non si prostituisce allo sguardo vigliacco e indifferente, ma che sussurra dolci emozioni a chi s’incammina alla sua ricerca.
Il Vangelo è per tutti, a disposizione. A patto che uno non stia cercando prontuari per pettinare pecore e bambole.